Giudizi di valore e dottrine civilistiche.
Il caso dei diritti della personalità

Giorgio Pino

Premessa

Lo scopo del presente lavoro è di mostrare concretamente il modo in cui i giudizi di valore degli interpreti condizionino la lettura di un certo segmento dell'esperienza giuridica, determinando costruzioni teoriche (almeno in apparenza) radicalmente contrastanti. La scelta è caduta sui diritti della personalità, in quanto si tratta di un settore dell'ordinamento giuridico caratterizzato per un verso da scarsi riferimenti legislativi, e per altro verso dalla potenziale apertura a principi e valori costituzionali, nonché dalla circostanza che si tratta di una materia in cui la tenuta degli istituti giuridici è messa a dura prova dalla continua evoluzione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Si tratta in altre parole di una materia "calda", sia dal punto di vista del discorso dogmatico, sia da quello dell'opinione pubblica.


1. Diritti della persona, diritti della personalità, privacy

In primo luogo si dovrà affrontare una questione di rilevanza per così dire pregiudiziale: quella di una definizione della nozione di "diritti della personalità", che consenta di tenere distinte talune problematiche che talvolta sono (inopportunamente) trattate in maniera unitaria o quantomeno congiunta. In particolare, sembra opportuno distinguere tre nozioni che, ad una sommaria ricognizione degli usi invalsi in dottrina e in giurisprudenza, risultano frequentemente impiegate in maniera pressoché fungibile, in tal modo determinando il rischio di ingenerare confusioni concettuali nel linguaggio dei giuristi e, cosa forse più grave, in quello dei giudici e del legislatore; si tratta delle nozioni di: diritti della persona, diritti della personalità, privacy.
L'opportunità di una chiarificazione terminologica è dettata, altresì, dalla circostanza che le problematiche attinenti alla tutela giuridica della persona tendono sempre di più a costituire una sorta di nuovo sotto-sistema del diritto civile; tale sotto-sistema, nella configurazione che ha assunto soprattutto negli ultimi tre decenni, appare caratterizzato da : a) un apporto assolutamente predominante da parte del formante giurisprudenziale e dottrinale, e per converso da un basso tasso di legificazione; b) una espansione continua e caotica, che ha visto nel tempo l'emersione di sempre nuove figure di diritti della persona e/o della personalità (ovvero, da una diversa prospettiva, di nuove fattispecie di danno alla persona), talvolta puramente e semplicemente giustapposte a quelle già conosciute.
Secondo un'autorevole opinione(1) , lo sviluppo di tale sotto-sistema sia da mettere in relazione ad un superamento dell'antropologia sottesa al nostro codice civile, e in generale ai codici civili eredi della cultura giuridica liberale ottocentesca, tradizionalmente agnostici in merito ai problemi della vita materiale, ai bisogni del corpo e della personalità morale dell'individuo. A tale antropologia, o ideologia, che è stata anche definita nei termini di un "individualismo possessivo"(2) , si sarebbe sostituita in tempi più recenti una nuova antropologia, anche in conseguenza di una ricezione tendenzialmente sempre maggiore dei valori costituzionali contemporanei anche da parte della cultura giuridica giusprivatistica, antropologia che fa perno sul principio di eguaglianza inteso nel senso che "la dignità umana non dipende dalle circostanze esteriori, dai ruoli sociali occupati dall'individuo, ma è un valore che inerisce all'uomo in quanto uomo"(3) .
Tale mutato atteggiamento culturale si è ben presto tradotto, sul piano della law in action, nell'individuazione da parte della dottrina e della giurisprudenza di un numero sempre crescente di diritti ed interessi promiscuamente ricondotti alla persona o alla personalità. Una sommaria ricognizione di alcuni lavori dedicati ai diritti della personalità (sia di taglio introduttivo, sia monografie specialistiche) porterebbe a ritenere che di tale categoria facciano parte (variamente in rapporto tra loro): il diritto alla vita e all'integrità fisica, le problematiche attinenti a suicidio eutanasia e aborto, la sterilizzazione e la fecondazione assistita, il diritto alla salute, la tutela dell'ambiente, la tutela del consumatore, dell'utente di servizi radiotelevisivi, degli infermi di mente, il diritto morale di autore, il diritto al nome, allo pseudonimo, all'immagine, alla reputazione, all'identità personale, all'identità sessuale, alla riservatezza, il diritto all'oblio, il diritto allo sfruttamento economico della propria notorietà, nonché i più svariati diritti di libertà (diritto alla libertà personale, sessuale, religiosa, alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà di esplicazione di attività nel campo economico e privato, alla costituzione e alla partecipazione alle formazioni sociali)(4) . Il diritto alla salute, inteso come diritto all'integrità psico-fisica (e quindi al risarcimento del danno biologico), ha poi dato adito alla elaborazione dottrinale e/o giurisprudenziale di ulteriori figure, la cui autonoma configurabilità è peraltro altamente controversa (si discute in particolare della loro autonomia rispetto al danno biologico)(5) , tra le quali si possono indicare: il danno da emozioni(6) , il danno psichico(7) , il danno esistenziale(8) , il danno edonistico(9) , il danno da "mobbing"(10) .
Il quadro dei diritti della personalità si è poi ulteriormente annacquato in seguito all'entrata in vigore della legge n. 675/1996, nota all'opinione pubblica come "legge sulla privacy", o meglio come "legge sul trattamento dei dati personali". Già all'indomani dell'entrata in vigore di tale legge, infatti, il lessico dei giuristi italiani si è immediatamente arricchito di un nuovo vocabolo, mutuato dall'esperienza anglosassone (in particolare nordamericana): privacy(11) . Il giurista italiano tende apparentemente ad usare il termine privacy, come sinonimo di "diritto alla riservatezza", o "alla intimità della vita privata", ma in realtà occorre notare che, in primo luogo, non si tratta di nozioni perfettamente sovrapponibili, e in secondo luogo si tratta di un concetto che è altamente controverso nella sua stessa cultura di origine: in sintesi, l'innesto di tale termine (senza ulteriori specificazioni o ridefinizioni) nel linguaggio giuridico italiano sembra sfortunatamente risolversi in un surplus di ambiguità semantica, nell'aumentare le trappole linguistiche e concettuali di cui è disseminato il linguaggio giuridico. Vediamo perché.
Il concetto di privacy, originariamente definito come "il diritto ad essere lasciati soli" ("the right to be let alone")(12) , ha subito nella cultura giuridica nordamericana una profonda trasformazione, che ha portato in primo luogo a distinguere tra una rilevanza costituzionale ed una civilistica del concetto stesso. Nel primo caso, la privacy implica l'interesse dell'individuo all'esclusione di qualsiasi ingerenza dei pubblici poteri dalla propria sfera privata, e pertanto include sia il diritto all'intimità della vita privata (in particolare nei confronti dei pubblici poteri), sia il diritto all'autonomia e all'autodeterminazione personale (in tal modo includendo - ad esempio - il diritto della donna di abortire). Nel secondo caso, privacy è formula sintetica per denotare un insieme di illeciti a rilevanza civilistica (torts) quali: l'intrusione negli affari privati di una persona, la pubblicazione di fatti privati, la divulgazione di notizie atte a porre una persona in una falsa luce agli occhi del pubblico, lo sfruttamento commerciale del nome o dell'immagine di altra persona(13) .
In sintesi, il termine privacy può essere utilizzato in una gamma molto ampia di significati, tale che in alcuni contesti esso può denotare ciò che nella cultura giuridica italiana viene designato come "diritto alla riservatezza", mentre in altri contesti esso arriva a coprire un'area semantica sostanzialmente coincidente con (e anzi probabilmente eccedente) i nostri "diritti della personalità", fino ad avvicinarsi al concetto di "libera autodeterminazione"; peraltro in tale nozione, quantomeno nell'accezione civilistica, si trovano unificate delle posizioni che nella nostra cultura giuridica sono considerate solo parzialmente coincidenti, quando non nettamente differenziate o addirittura opposte, quali ad esempio il diritto alla riservatezza da una parte e il diritto all'identità personale e allo sfruttamento della propria notorietà dall'altra.
In base alle brevi osservazioni sin qui svolte, potremmo dire che "diritti della persona", "diritti della personalità", e "privacy", siano degli essentially contested concepts; con tale termine ci si riferisce a concetti che, pur avendo una comune base concettuale, unanimemente riconosciuta da tutti coloro che cercano di definirne il significato, sono tuttavia esposti ad interpretazioni e a valutazioni differenti, molte delle quali, fra l'altro, supportate da buone ragioni, e quindi sottratte a discorsi di tipo sbrigativamente confutatorio(14) . Le ragioni della "controvertibilità", da un punto di vista definitorio, della nozione di diritti della personalità sono diverse: si tratta infatti di materia fitta di disaccordi teorico-dogmatici e ideologici, e peraltro caratterizzata da quella che è stata acutamente definita come la "solitudine del giurista"(15) : quest'ultimo si mantiene infatti pervicacemente refrattario all'accostamento con le discipline non giuridiche che trattano a vario titolo degli aspetti morali della persona, quali ad esempio la psicologia, la psicanalisi, la sociologia, l'antropologia. L'indifferenza del giurista rispetto alle soluzioni maturate in altre discipline spiega in parte la grande varietà di definizioni proposte (o più spesso solo presupposte) in materia di diritti della personalità.
Orbene, muovendoci nella direzione di una definizione esplicativa, pare che una definizione della nozione "diritti della personalità" debba in primo luogo prendere le mosse da una distinzione di massima tra i diversi possibili aspetti della persona che possono costituire oggetto di tutela giuridica, e in particolare tra gli aspetti attinenti alla "persona" intesa come persona fisica, e gli aspetti attinenti alla "persona" nella sua dimensione morale, ideale, spirituale, relazionale, sociale(16) .
L'esigenza di una simile distinzione, a ben guardare, non è cosa nuova. Già nell'Ottocento, infatti, al fine di superare alcune imbarazzanti aporie derivanti dalla difficoltà di sovrapporre la categoria dogmatica del diritto soggettivo agli attributi della personalità, un illustre giurista tedesco proponeva di distinguere tra Mensch (uomo) e Person (persona), sottolineando la differenza tra la persona intesa nella sua corporalità e la personalità come indicatore degli attributi della persona o, a volte, della capacità giuridica(17) . Tale distinzione appare invero quanto mai opportuna, sol che si consideri il vero e proprio processo di straripamento dei profili di tutela dell'integrità psicofisica della persona cui si è accennato poco sopra; tale processo, basandosi sulla categoria del danno biologico come clausola generale di risarcimento in materia di tutela della persona umana, ha determinato un offuscamento delle peculiarità dei differenti interessi facenti capo alla persona. Per tale motivo, appare condivisibile la reazione, recentemente emersa in dottrina, contro la tendenza ad accomunare sul piano della tutela giuridica ipotesi quali la lesione dell'integrità psicofisica da una parte, e le aggressioni a beni della personalità "dotati di una diversa valenza sociale, storica, giuridica"(18) , quali ad esempio la riservatezza, l'immagine, l'onore, l'identità personale. Considerare indistintamente tutte queste ipotesi all'insegna della tutela della persona, per il tramite della lesione del diritto fondamentale alla salute interpretato in senso ampio ed "evolutivo", sembra un prezzo troppo alto - e non necessario - da pagare alla mutata antropologia (o se si vuole alla costituzionalizzazione) del diritto civile cui si è fatto cenno sopra.
Se si accetta la distinzione sopra proposta tra persona come entità psicofisica e personalità come dimensione morale ecc., si può senz'altro aderire ad una definizione, recentemente proposta in dottrina, a mente della quale i diritti ed interessi riconducibili alla categoria "diritti della personalità" afferiscono ai seguenti profili: "a) la identità e identificazione del soggetto nei suoi diversi aspetti oggettivi e soggettivi; b) la auto-percezione che il soggetto ha di se stesso e la percezione che del soggetto dà il resto della comunità"(19) . In tal modo, nella categoria dei diritti della personalità ricadrebbero figure quali, ad esempio, il diritto al nome, allo pseudonimo, all'immagine, alla reputazione, all'identità personale, all'identità sessuale, alla riservatezza, il diritto morale di autore, il diritto all'oblio, il diritto allo sfruttamento economico della propria notorietà, il diritto sui propri dati(20) . Per converso, sarà conveniente ricondurre alla categoria dei "diritti della persona" l'insieme degli interessi e dei profili di tutela attinenti all'integrità psicofisica della persona e che, a quanto emerge dal panorama dottrinario e giurisprudenziale più recente, sembrano ruotare principalmente (ma non esclusivamente) sulla tutela del diritto alla salute.
La definizione sopra tratteggiata sembra sufficientemente precisa da escludere dalla trattazione non solo la maggior parte delle problematiche connesse al diritto alla salute, ma anche altre fattispecie non attinenti all'identità, all'identificazione, alla percezione sociale e all'auto-percezione del soggetto, quali ad esempio la tutela del consumatore o del minore all'interno della famiglia; allo stesso tempo, essa sembra sufficientemente ampia da ricomprendere sia diritti della personalità per così dire "puri", la cui tutela prescinde da un pregiudizio di carattere patrimoniale (come ad esempio il diritto al nome), sia diritti a rilevanza patrimoniale (come il diritto allo sfruttamento economico della propria notorietà). Si tratta inoltre di una definizione che è in grado di dirci qualcosa sul contenuto dei diritti della personalità. Infatti, se guardiamo alle definizioni circolanti presso gli autori che si sono occupati ex professo di questa materia (e peraltro gli autori che si sono occupati di diritti della personalità non sempre si sono curati di premettere una definizione purchessia dell'oggetto della loro trattazione), ci accorgiamo che nella maggior parte dei casi ci si affida alla tralatizia definizione, di tipo meramente formale, e spesso ripetuta soltanto in omaggio ad un modo di vedere ormai desueto, secondo la quale i diritti della personalità sarebbero individuati in base alle seguenti caratteristiche: innatezza, indisponibilità, non patrimonialità, intrasmissibilità, irrinunciabilità, imprescrittibilità(21) . In altri casi, il tentativo di superare le (asfittiche) categorie tradizionali si risolve in definizioni forse eccessivamente ampie(22) , quando non tendenzialmente vuote e fortemente sospette di circolarità, quali quelle che individuano i diritti della personalità come quei diritti essenziali allo sviluppo della personalità(23) . Queste ultime definizioni, peraltro, non sembrano molto distanti da un uso invalso soprattutto presso i pubblicisti, ma talvolta accolto anche presso i civilisti(24) , in base al quale vengono identificati a livello terminologico "diritti della personalità" e "diritti fondamentali" o "diritti di libertà". Tale uso sembra però criticabile, in quanto: a) non definisce i diritti della personalità, b) presuppone una tesi che deve essere in realtà dimostrata, quella della rilevanza costituzionale dei (singoli) diritti della personalità, c) attrae nell'area dei diritti della personalità l'intera problematica delle libertà costituzionali (politiche e civili), determinando così una categoria ipertrofica ed estremamente eterogenea, anche sotto il profilo della disciplina costituzionale, d) è idonea ad ingenerare confusioni ed equivoci fra livelli di discorso diversi, come pare di scorgere nel caso di chi ha sostenuto che l'art. 2 Cost. si presta ad essere interpretato nel senso di riconoscere una pluralità di diritti della personalità (interpretazione pluralista) ovvero l'esistenza di un unico diritto della personalità (interpretazione monista)(25) , laddove invece, come vedremo tra breve (infra, § 2.2), teoria monista e pluralista non riguardano - o quantomeno non riguardano direttamente, né necessariamente - l'interpretazione dell'art. 2.
Peraltro, la definizione appena proposta permette di sgombrare il campo da un'ulteriore categoria, talvolta ipotizzata da alcuni autori (apparentemente senza troppo successo), quella dei "diritti complementari della personalità" o "diritti complementari ai diritti della personalità". Si tratterebbe di una categoria in realtà piuttosto eterogenea, nella quale confluirebbero diritti non dotati delle caratteristiche dei diritti della personalità, il cui tratto unificante risiederebbe nel loro carattere strumentale rispetto allo sviluppo della personalità; a tale caratteristica risponderebbero ad esempio il diritto agli alimenti, il diritto alla salute, il diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, la garanzia della proprietà(26) . L'opportunità di configurare questa categoria deriverebbe, secondo i fautori di essa, dall'esigenza di reagire alla tendenza di taluni scrittori a dilatare eccessivamente l'ambito dei diritti della personalità, e pertanto dovrebbe rispondere ad una finalità di ordine concettuale e certezza del diritto. In realtà, si può ragionevolmente dubitare dell'utilità e della consistenza di questa fumosa categoria(27) : è evidente, infatti, che una categoria di diritti il cui unico comune denominatore consiste nella strumentalità delle pretese, rivolte ad altri privati o allo Stato, rispetto allo sviluppo della persona umana potrebbe virtualmente abbracciare qualsiasi pretesa giuridicamente (o anche solo moralmente) rilevante; adottando la definizione di diritti della personalità sopra delineata, la categoria dei diritti complementari diventa del tutto superflua.
Quanto al concetto di privacy, anch'esso necessita di una robusta opera di ridefinizione, che non è evidentemente possibile affrontare in questa sede; ci si limiterà pertanto a segnalare uno dei più interessanti tentativi di ridefinizione, dovuto principalmente a Stefano Rodotà, in base al quale la privacy dovrà essere definita come "diritto di mantenere il controllo sulle proprie informazioni e di determinare le modalità di costruzione della propria sfera privata. L'oggetto di questo diritto si specifica […] nel "patrimonio informativo attuale o potenziale" di un soggetto"(28) . Ora, pur dovendosi riconoscere che tale (ri)definizione della privacy riesce a cogliere delle effettive tendenze nelle legislazioni recenti di molti paesi occidentali (inclusa l'Italia), sembrerebbe comunque opportuno per le ragioni già accennate limitare drasticamente l'utilizzo di tale nozione nel lessico giuridico italiano. Come abbiamo avuto modo di notare, infatti, il termine privacy continua ad essere usato dai giuristi di casa nostra in una accezione tendenzialmente coincidente con "riservatezza" o "intimità della vita privata", mentre la definizione di Rodotà fonde profili attinenti alla riservatezza e profili attinenti all'identità personale, oltre ad altri interessi ancora.
Pur ridefinito, quindi, il concetto di privacy rimane ancora portatore di una pericolosa carica di ambiguità strutturale, come è stato messo in evidenza, ad esempio, a proposito della opportunità di distinguere tra aspetti attinenti alla disclosural privacy (tutela dalle indiscrezioni) e quelli attinenti alla informational privacy (autodeterminazione informativa), ovvero ancora tra gli aspetti della privacy legati alla protezione dalla wrongful publicity, e quelli invece legati alla protezione da varie forme di intrusion: in particolare, considerato che solo per i primi, e non per i secondi, vengono in considerazione problemi di bilanciamento con diritti collegati al free speech, e considerato anche che nella tradizione di common law (specialmente nordamericana) tale bilanciamento porta quasi sempre alla schiacciante prevalenza del free speech, il pericolo è che anche gli altri interessi rientranti nella nozione di privacy vengano surrettiziamente indeboliti pur in ipotesi non direttamente interessate da problemi di free speech(29) .
Il rischio, come si accennava in apertura di paragrafo, è che attraverso la tradizione di common law tale ambiguità penetri nei discorsi dei giuristi e del legislatore italiano. Questo pericolo di confusione concettuale non è sfuggito, ad esempio, ad alcuni tra i primi commentatori della legge n. 675/1996; a tale proposito, è stato efficacemente notato come nel contesto della medesima legge la disciplina venga estesa ad aspetti della personalità che non hanno nulla a che vedere con la privacy (quantomeno se intesa nell'accezione più comune ed intuitiva di riservatezza), o che con essa presentano un collegamento solo occasionale, quali il divieto di discriminazioni, la tutela della dignità e dell'identità personale(30) . Secondo la citata dottrina, l'aver accomunato tutte queste problematiche all'interno della medesima legge può essere stata una scelta forse ispirata da "un corretto realismo politico"(31) , ma sicuramente infelice da un punto di vista culturale e di tecnica legislativa. Su questo punto occorrerà tornare in seguito, in sede di esame della legge 675/1996 (infra, § 4).
Riassumendo, definiremo "diritti della personalità" quei diritti che pertengono alla sfera relazionale della persona, alla sfera della conoscenza, della conoscibilità e della identificabilità della persona nell'ambito delle relazioni sociali; definiremo "diritti della persona" quei diritti che riguardano la salute e l'integrità psicofisica della persona; definiremo privacy l'interesse della persona a controllare la raccolta e l'uso che terzi possono fare delle informazioni personali attinenti a quella persona, ovvero l'interesse (in determinate condizioni) ad inibirne la raccolta e l'uso. Così definita, la privacy è agevolmente riconducibile alla categoria dei diritti della personalità, e a ben vedere altro non è che la sintesi di diritti che nella nostra cultura giuridica sono solitamente tenuti distinti.


2. Gli orientamenti fondamentali in materia di diritti della personalità

La categoria generale dei diritti della personalità rappresenta un campo di indagine tutto sommato relativamente nuovo per la scienza giuridica italiana. D'altronde, lo scarso interesse verso gli aspetti morali della personalità mostrato dalla dogmatica giuridica fino a pochi decenni fa può apparire in qualche misura giustificato dalla presenza di una disciplina positiva tradizionalmente scarna e frammentaria di tale materia. Nel corpo del codice civile 1942, ad esempio, i diritti della personalità esplicitamente riconosciuti sono esclusivamente: il diritto al nome e allo pseudonimo (artt. 6-9), il diritto all'immagine (art. 10), e il c.d. diritto morale di autore (art. 25772).
Come abbiamo avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, la limitata considerazione degli aspetti lato sensu morali della personalità umana può essere ricondotta ad un pregiudizio ideologico, risalente alla cultura giuridica del secolo scorso, secondo il quale il codice civile è deputato a tutelare e disciplinare (prevalentemente o esclusivamente) rapporti tra privati aventi carattere patrimoniale. L'eventuale rilevanza giuridica dell'esplicazione della personalità morale degli individui, secondo questo modo di vedere, non è materia che riguardi il diritto civile, ma (casomai) il diritto pubblico: in specie, il diritto costituzionale per quanto riguarda l'esercizio dei diritti politici e delle libertà fondamentali, il diritto penale per la loro tutela. Abbiamo già fatto cenno alla antropologia dell'individualismo possessivo, o se si preferisce alla centralità del modello proprietario, come tratto caratteristico della cultura giuridica liberale ottocentesca. Ora, l'elevazione del modello proprietario a schema fondamentale di regolazione dei rapporti interprivati può essere spiegata in base a ragioni sia di carattere storico che di tecnica giuridica(32) . Tra le prime, si possono individuare l'influenza sui modelli di tutela della persona delle teorie giusnaturaliste per un verso, che adottavano l'istituto della proprietà come punto di riferimento più idoneo per affermare l'esigenza di garantire l'autonomia della volontà dell'individuo contro le interferenze del potere politico in tutte le loro possibili espressioni (33) , e della c.d. "giurisprudenza degli interessi" (Interessenjurisprudenz) per un altro verso, la quale assumendo che l'interesse è l'elemento sostanziale del diritto, e identificando l'interesse tendenzialmente con l'interesse economico, ha avuto l'effetto di estendere e generalizzare i modelli di tutela e le concettualizzazioni basate su rapporti patrimoniali. Tra le seconde, si possono annoverare la tendenza a ricondurre tutte le categorie privatistiche a quella dell'"avere", e l'aderenza degli strumenti di tutela di tipo proprietario a talune finalità generali della garanzia dei rapporti privatistici, quale in primo luogo la reazione contro le invasioni della sfera individuale.
Considerato dalla prospettiva dei modelli normativi circolanti al momento della sua entrata in vigore (Code Napoléon, BGB), il codice civile italiano del 1942, pur con i suoi pochi articoli dedicati ai diritti della personalità, reca alcuni importanti segni di novità. Infatti, in primo luogo esso attrae all'interno dello ius civile la normativa circa il diritto al nome (o quantomeno alcuni suoi aspetti), normativa che in precedenza era esclusivo appannaggio del diritto pubblico, tanto che tali norme vennero considerate assolutamente superflue da parte di taluni osservatori contemporanei alla redazione e promulgazione del codice; in secondo luogo, il nuovo codice include espressamente il diritto all'immagine (art. 10), anch'esso già presente nel sistema (in particolare agli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d'autore), attribuendo in tal modo rilevanza generale ad una disciplina che fino a quel momento era solo di settore.
Questi pur timidi segni di novità possono aiutare a comprendere le polemiche a suo tempo suscitate dall'inserimento nel codice di tali limitate disposizioni, polemiche che oggi ci sembrerebbero degne di miglior causa. Peraltro, il clima culturale del tempo non era certo propizio al dibattito sui diritti della personalità: la concezione fascista dello Stato in generale, e del diritto privato in particolare, era nettamente contraria a riconoscere diritti intangibili della persona, giudicati alla stregua di inequivocabili segni di giusnaturalismo e di pericoloso individualismo, vedendo invece la persona e la personalità come funzionalizzate in vista del supremo interesse dello Stato(34) .
L'influenza dei condizionamenti culturali derivanti dall'ideologia fascista non deve comunque essere sopravvalutata, e anzi è ormai un luogo comune richiamare l'orgogliosa rivendicazione da parte della scienza giuridica, soprattutto civilistica, della propria autonomia rispetto agli impulsi di politica del diritto provenienti dal regime fascista(35) . In realtà, lo scetticismo mostrato dalla dottrina civilistica della prima metà del Novecento circa la configurabilità dei diritti della personalità si spiega principalmente in base a considerazioni di tipo dogmatico, attinenti in particolare alla natura del diritto soggettivo, ed alla nozione di danno risarcibile. Da questo punto di vista, in dottrina si evidenziava in primo luogo l'impossibilità di inquadrare i diritti della personalità nello schema del diritto soggettivo, tradizionalmente modellato (specie se inteso come "signoria del volere") sul diritto di proprietà e quindi sull'avere, mentre i diritti della personalità riguardano la categoria dell'essere; da qui, le difficoltà e i paradossi evidenziati da alcuni giuristi nel configurare un diritto soggettivo che vede il medesimo soggetto di diritto ad un tempo come titolare e come oggetto del diritto stesso(36) . In secondo luogo, l'inquadramento dogmatico della categoria era ostacolato dalle nozioni di illecito e di danno abitualmente accolte, che rimandavano ad una violazione di un diritto soggettivo la prima, e ad una diminuzione patrimoniale la seconda; entrambe queste caratteristiche erano difficilmente riscontrabili nei diritti della personalità come venivano intesi nel dibattito dell'epoca(37) .
Questo modo di vedere è chiaramente esemplificato nel pensiero di un giurista della levatura di Francesco Santoro Passarelli, che con le sue Dottrine generali del diritto civile ha inteso offrire una sintesi rigorosa delle principali categorie civilistiche(38) . Ebbene, Santoro Passarelli esclude decisamente che il nostro ordinamento riconosca dei diritti soggettivi aventi ad oggetto gli attributi della personalità: "l'ordinamento giuridico stabilisce gli attributi essenziali della personalità con norme che sono di diritto pubblico (costituzionale, amministrativo e penale) e non conferiscono alla persona un potere di volontà in ordine alla spettanza degli attributi medesimi: essi costituiscono beni per il soggetto, ma non sono oggetto di altrettanti diritti soggettivi, e perciò non sono né trasferibili né rinunziabili"(39) . Pertanto, beni della personalità come il nome e l'immagine rappresentano non il contenuto di altrettanti diritti soggettivi ma, in ipotesi, il presupposto di un diritto alla cessazione del fatto lesivo ed eventualmente al risarcimento del danno (l'autore parla in proposito della tutela civile approntata dall'ordinamento come "tutela secondaria" rispetto a quella pubblicistica).
In conclusione, spostando il discorso su un livello di analisi più generale, è stato persuasivamente osservato che l'ordine giuridico si muove sempre lungo un intreccio costante di "proprietà" e "personalità": tra questi due poli vi è un dualismo tale che in alcuni contesti storici e culturali prevarrà l'uno a scapito dell'altro, ma ciononostante si tratta di due profili sempre compresenti(40) . Ebbene, come si è avuto modo di accennare poco sopra, nel contesto delle concezioni individualiste e "materialiste" imperanti nella cultura delle grandi codificazioni liberali-borghesi del secolo scorso, la sfera morale della persona a ben vedere non era ignorata, ma considerata solo (o principalmente) in maniera presupposta o sottintesa, ponendosi invece l'accento sulla funzione emancipatrice della proprietà nei confronti dell'individuo: secondo quel modo di vedere, la persona può realizzare la sua libertà solo attraverso la proprietà. E in tal senso non è sfuggito peraltro come le prime, più risalenti ipotesi di tutela della riservatezza e dell'intimità della vita privata delle persone siano passate attraverso azioni a tutela della proprietà, o comunque attraverso istituti giuridici attinenti alla regolamentazione di rapporti proprietari, come ad esempio - banalmente - la disciplina delle distanze tra le costruzioni, o la sanzione della violazione del domicilio (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare)(41) .
Questo atteggiamento consolidato nella cultura giuridica è stato messo gradualmente in discussione a partire dalla seconda metà del Novecento. In particolare, la necessità di un nuovo modo di concepire (e di tutelare) i diritti della personalità si è affermata dopo l'entrata in vigore della Costituzione italiana del 1948, portatrice, al pari di altre costituzioni europee contemporanee, di istanze personalistiche, e con la faticosa acquisizione da parte della civilistica di una nuova sensibilità verso gli aspetti non strettamente patrimoniali dei rapporti interprivati(42) .
Si può considerare sintomatico, a questo proposito, un breve intervento di Adriano De Cupis risalente al 1956, nel quale si auspica una vigorosa reazione contro la concezione materialistica e patrimonialistica del diritto privato, "ridotto a mero coordinamento degli interessi economici individuali"; ponendosi da una prospettiva che definiremmo di politica del diritto de sententia ferenda, l'illustre giurista esorta l'interprete a recuperare gli spazi di tutela giuridica che l'ordinamento privatistico può assicurare alla persona umana in sé considerata, nel suo essere, prima ancora che nel suo avere(43) .
Le possibili spiegazioni di tale mutato atteggiamento culturale sono diverse; il fattore forse più evidente, a livello sociologico, può essere considerato il vertiginoso sviluppo tecnologico dei mass media, la cui diffusione ha costretto i sistemi giuridici ad affrontare forme precedentemente inedite di aggressione all'integrità morale della persona. Un altro fattore potrebbe essere ricondotto all'acquisita consapevolezza che lo Stato (o in generale il pubblico potere) non è affatto l'unica istituzione potenzialmente totalizzante presente nella società, e che i poteri privati possono rivelarsi altrettanto pericolosi di quelli pubblici per la libertà e dignità individuale. Significativo in tal senso è che i primi interventi normativi a tutela della dignità e libertà morale della persona siano riscontrabili nel campo del rapporto individuale di lavoro, essendo maturata la consapevolezza che in tale contesto l'intera persona del lavoratore, e non solo la sua energia lavorativa, viene implicata nel rapporto contrattuale(44) .
È certo comunque che, da quel torno d'anni in avanti, è diventata sempre più frequente l'affermazione che il diritto privato tutela (è di per sé in grado di tutelare, o dovrebbe tutelare, a seconda delle differenti posizioni rinvenibili in dottrina) l'autonomia della persona umana non solo nella sfera del suo avere, ma anche in quella del suo essere, ovvero "oltre che come soggetto agente altresì come soggetto esistente"(45) . L'inversione della gerarchia di valore tra essere e avere consolida l'emersione della categoria dei diritti della personalità come categoria distinta e autonomamente protetta, portando così ad affiancare, se non proprio a sostituire, al binomio libertà-proprietà quello libertà-personalità, e inducendo taluno ad affermare, forse con un eccesso di enfasi, che nella civilistica più recente si sarebbe creata una nuova "scuola", accomunata da un'opera di rifondazione di alcuni settori della sistematica sui valori della persona umana anziché su quelli patrimoniali(46) .
Quanto alla concreta attuazione di questo processo di penetrazione di principi personalistici nella materia dei diritti della personalità, un ruolo di particolare importanza è stato svolto dal formante giurisprudenziale, in maniera episodica già a partire dagli anni Sessanta, e assai massicciamente dalla fine degli anni Settanta in poi; l'attività innovatrice, e sostanzialmente creativa svolta dalla giurisprudenza nella materia dei diritti della personalità ha portato taluno a parlare in proposito di diritti "creati in laboratorio, anzi […] in 'provetta'"(47) ; del resto, il ruolo assolutamente centrale svolto dalla giurisprudenza sembra altresì testimoniato dalla circostanza che per lungo tempo (e in buona parte ancora oggi) il dibattito dottrinale sull'argomento si è incentrato o sulla critica di determinati orientamenti giurisprudenziali, o (più spesso) sul tentativo di portare ad un qualche grado di sistematizzazione gli spunti provenienti dalla giurisprudenza stessa. Si consideri infine che in alcuni casi (pensiamo ad esempio alla legge 164/1982 sulla rettificazione dell'attribuzione di sesso, o per alcuni versi alla già citata legge 675/1996 sulla tutela dei dati personali) il legislatore è intervenuto solo a posteriori, regolamentando per la prima volta a livello legislativo materie già ampiamente esplorate e dibattute in sede dottrinaria e giurisprudenziale. Tutto ciò legittima l'impressione che in questa materia il rapporto tra legge, scienza giuridica e attività giurisdizionale si presenti in una maniera piuttosto lontana dai canoni tramandati nei sistemi a diritto codificato.

2.1. Diritti della personalità e diritto soggettivo

Sul piano delle categorie dogmatiche, l'attenzione verso i profili morali della persona si è manifestata nel tentativo di rivisitare, quando non di superare, il modello tradizionale del diritto soggettivo come presupposto indefettibile della tutela giuridica civilistica. A questo proposito, tralasciando modi di vedere ormai del tutto desueti come quelli che ipotizzavano un diritto di proprietà della persona su sé medesima (ius in se ipsum, ius in corpus suum, e simili), sono rinvenibili in dottrina non meno di tre differenti posizioni.
In primo luogo, vi sono quanti sostengono (o talvolta si limitano a postulare) che i diritti della personalità possono essere agevolmente inquadrati nello schema del diritto soggettivo, evidentemente tenendo presenti le peculiarità strutturali degli attributi della personalità rispetto ad altri beni suscettibili di appropriazione giuridica(48) ; in tal caso, come avremo modo di chiarire nel prossimo paragrafo, si parlerà talvolta di "diritti della personalità", talaltra di "diritto generale della personalità".
In secondo luogo, vi sono quanti preferiscono rivolgersi ad una nozione meno impegnativa rispetto a quella di diritto soggettivo, quale ad esempio interesse giuridicamente rilevante o simili; si fa strada in altre parole la tendenza a conferire rilevanza a determinate situazioni giuridiche attinenti alla sfera della personalità umana, indipendentemente dalla loro possibile qualificazione in termini di diritti soggettivi, e caratterizzate da una diversa graduazione della protezione dell'interesse (specie sotto forma di tutela mediata dalla protezione di un interesse generale), riconoscendo in tal modo la tutelabilità di interessi di varia natura direttamente o indirettamente ricollegabili ad una norma di legge(49) ; in tal caso, si parlerà generalmente di "beni della personalità" o di "attributi della personalità" o ancora di vari "interessi" (all'identità personale, alla riservatezza ecc.).
Infine, vi è la posizione di chi esclude che la tutela giuridica della personalità possa essere ricondotta tanto allo schema del diritto soggettivo, inevitabilmente collegato alla sfera dell'avere, all'appropriazione di qualcosa che è esterno rispetto al soggetto, quanto a forme più sfumate di interesse protetto; piuttosto, la forma essenziale della tutela giuridica della persona risiederebbe in un dovere di astensione, la violazione del quale legittima i poteri di reazione da parte dell'interessato(50) ; in tal caso si è parlato non di diritti della personalità né di beni della personalità, ma di "valore giuridico della persona".
Vedremo a suo luogo che il dibattito sulla configurabilità dei diritti della personalità come diritti soggettivi o come interessi rilevanti, è stato riproposto anche nel caso specifico del diritto all'identità personale. Vale la pena comunque di fare subito qualche osservazione sull'uso delle categorie giuridiche soggettive a proposito dell'inquadramento dogmatico dei diritti della personalità. Innanzitutto, è vero che talvolta in questa materia si è fatto "un uso ideologico della categoria del diritto soggettivo"(51) , consistente nell'estensione di tale qualifica a qualunque interesse ritenuto (dall'interprete) meritevole di tutela risarcitoria; la controprova della manipolazione delle categorie dogmatiche potrebbe poi essere offerta dalla circostanza che le conclusioni, cui pervengono autori che sposano tesi contrapposte, presentano più di una somiglianza; in sintesi, il sospetto è che ci si trovi di fronte ad una disputa in gran parte nominalistica, sulla quale gravano pesanti ipoteche non solo dogmatiche ma anche ideologiche.
In realtà, non sembrano esservi seri ostacoli concettuali a configurare un diritto soggettivo che abbia per contenuto un attributo della personalità; una volta che si sia abbandonata la vetusta concezione del diritto soggettivo come signoria del volere su un'entità del mondo esterno, per abbracciare la più moderna idea del diritto soggettivo come complessa posizione di vantaggio riconosciuta dall'ordinamento ad un certo soggetto in relazione ad un certo bene, il problema non potrà che essere risolto in base a considerazioni di diritto positivo; in altre parole, occorrerà semplicemente vedere se un certo ordinamento assicuri o meno protezione a certi interessi, che in tal modo possono essere considerati come diritti soggettivi.

2.2. Teorie pluraliste e teorie moniste

Nell'ambito delle concezioni dei diritti della personalità che ne riconoscono (o presuppongono) la natura di diritti soggettivi, uno dei primi interrogativi emersi tanto nel dibattito dottrinario tanto negli orientamenti giurisprudenziali è stato quello relativo alla alternativa concettuale tra l'approccio "pluralista" e quello "monista" (per ragioni di brevità, non approfondiremo l'esame di una terza posizione pure rinvenibile in dottrina, a mente della quale, pur ammettendo che i diritti della personalità sono configurabili come diritti soggettivi, sembrerebbe per varie ragioni irrilevante o inappagante la scelta di aderire ad una posizione monista o pluralista)(52) .
In particolare, in base alla teoria pluralista, o atomista(53) , si possono solo configurare singoli, specifici diritti della personalità, come il diritto al nome, il diritto all'immagine, il diritto all'identità personale, il diritto alla riservatezza, e così via, man mano che questi vengano tipizzati in sede legislativa o meglio nella misura in cui essi si presentino come diritti soggettivi. All'interno della famiglia delle teorie pluraliste si può rinvenire un'articolazione interna, tra: a) un orientamento "aperto", a mente del quale - a seconda dei casi e ricorrendone le condizioni - l'interprete potrà fare ricorso all'interpretazione estensiva o all'argomento analogico, al fine di estendere la disciplina positiva a fattispecie sufficientemente simili rispetto a quelle espressamente tipizzate; b) un orientamento restrittivo, nettamente minoritario, secondo il quale la categoria dei diritti della personalità è una categoria chiusa, e le sole posizioni giuridiche soggettive tutelabili sono esclusivamente quelle previste da espresse disposizioni di legge(54) . Tale teoria poi, o famiglia di teorie, si accompagna (quantomeno originariamente) ad una concezione della responsabilità civile come rimedio applicabile tendenzialmente alla sola lesione di diritti soggettivi. Per altro verso, si può scorgere nelle teorie pluraliste il retaggio della tutela penale della personalità (considerata l'originaria sedes materiae dei diritti della personalità), la quale evidentemente implica una tipizzazione delle ipotesi di tutela. Infine, quanto al fondamento costituzionale, questo approccio sembra sposarsi con una interpretazione restrittiva dell'art. 2 Cost., inteso come norma meramente riepilogativa.
La teoria monista(55) , d'altro canto, concepisce non singoli diritti della personalità, ma un diritto generale della personalità, o forse alla personalità, vale a dire un diritto unitario all'autonomo sviluppo della propria personalità, che si articola poi in diversi aspetti o specifiche facoltà. Se le teorie pluraliste risentono dell'influenza di un'impostazione penalistica della materia, quelle moniste rimandano ad un parallelo con il diritto di proprietà; è frequente infatti imbattersi in riflessioni del seguente tenore: allo stesso modo in cui vi è un diritto di proprietà, che ovviamente include una serie di facoltà anche eterogenee (di disposizione, di godimento…), così vi è un unitario diritto della personalità, che ricomprende diversi profili, tutti strutturalmente e funzionalmente collegati alla personalità stessa, ma che non costituiscono altrettanti autonomi diritti soggettivi, e che non necessitano di tipizzazione normativa. L'approccio monista si ispira ad una concezione più flessibile della responsabilità civile, che rende possibile il ricorso alla tutela risarcitoria a fronte della lesione di qualunque interesse ritenuto giuridicamente rilevante in virtù del principio della atipicità dell'illecito. L'approccio monista inoltre è in genere considerato più coerente con il concetto stesso di personalità umana: questa è - si suole ripetere - un'entità unitaria, e pertanto una regolamentazione giuridica che istituisse delle forme di tutela solo rispetto ad alcuni aspetti predeterminati e tipizzati di essa (nome, immagine, reputazione…) risulterebbe incompleta e distorta; d'altro canto, il carattere fondamentalmente convenzionale e arbitrario della distinzione fra singoli aspetti della personalità sarebbe dimostrato - fra l'altro - dalle loro frequenti ed inevitabili sovrapposizioni evidenziate dall'esperienza concreta. La personalità umana, secondo tale approccio, non può essere parcellizzata e ricondotta a singoli diritti soggettivi; piuttosto essa è un valore, la cui primaria rilevanza giuridica è attestata dall'art. 2 Cost., e che deve essere giuridicamente tutelata in tutti i suoi aspetti giuridicamente rilevanti. La teoria monista quindi, ispirandosi ad una lettura "aperta" dell'art. 2 Cost., rende possibile non solo la configurazione ma anche la legittimazione costituzionale di nuovi diritti della personalità; inoltre, essa delega ai giudici il compito di proteggere (o, forse, creare) diritti pur in difetto di una precisa disciplina legislativa, incoraggiando in tal modo il ricorso ad una tecnica argomentativa, tipica dei sistemi di common law, secondo cui "remedies precede rights"(56) .
Teorie pluraliste e moniste sembrano condividere una medesima assunzione di tipo dogmatico, in particolare entrambe sembrano presupporre la categoria del diritto soggettivo come condizione imprescindibile della tutela civilistica(57) . Le due teorie sembrano poi presupporre due diverse concezioni delle fonti del diritto: secondo le teorie moniste la tutela della persona è principio fondamentale dell'ordinamento desunto dall'at. 2 Cost., e pertanto suscettibile di applicazione diretta ai rapporti interprivati; per le teorie pluraliste, invece, le norme costituzionali non si applicano direttamente, ma possono fungere da criterio-guida per l'interprete nel procedimento di analogia iuris (in altre parole, le norme costituzionali rilevanti non sarebbero principi fondamentali, ma "principi generali dell'ordinamento giuridico" ai sensi dell'art. 12 preleggi). Da un punto di vista pragmatico, infine, entrambe le teorie presentano vantaggi e svantaggi, anche se alla fine sembrano determinare esiti non troppo dissimili: la concezione monista considera la persona umana nella sua totalità, tutelando diverse possibili estrinsecazioni di essa, e presenta maggiore duttilità e adattabilità rispetto alle aggressioni provenienti dalle mutevoli situazioni sociali. La concezione pluralista sembra invece non limitarsi ad una prospettiva difensiva, proiettandosi piuttosto in una dimensione di affermazione e di valorizzazione degli specifici attributi della personalità.
In estrema sintesi, la differenza di fondo tra i due approcci si può schematicamente esprimere nel modo seguente: secondo la teoria pluralista, qualsiasi interferenza nella sfera privata altrui è lecita, salvo quelle espressamente proibite; secondo la teoria monista, ogni interferenza nella sfera privata altrui è vietata, eccezion fatta per quelle espressamente consentite(58) . Oppure, considerando lo stesso fenomeno da un punto di vista lievemente differente, si può dire che la concezione monista pone l'accento sul momento sostanziale della tutela dell'interesse ritenuto rilevante, mentre quella pluralista sul momento formale della tipizzazione legislativa(59) .
Peraltro, non si può fare a meno di notare che l'antagonismo tra i due approcci sembra risolversi (quasi) esclusivamente sul piano della tenuta delle categorie dogmatiche, mentre da un punto di vista pratico l'ambito di estensione della effettiva tutela della persona può finire con il risultare in entrambe le costruzioni teoriche di fatto equivalente: come accennato poco sopra, un approccio apparentemente più rigido come quello pluralista può ben essere mitigato dalle risorse interpretative ed argomentative (analogia legis e interpretazione estensiva) che compongono l'armamentario dei giuristi.
In realtà, gli osservatori più attenti non hanno mancato di notare che, da un punto di vista dogmatico, entrambe le teorie presentano una loro coerenza e si giustificano in relazione ad un particolare contesto, tale che non è possibile offrire una ragione ultima in base alla quale affermare la irrefutabilità dell'una o dell'altra tesi(60) . La situazione di stallo che vede contrapposti questi due approcci potrebbe essere forse spiegata ricorrendo ad una immagine elaborata in sede di filosofia della scienza, che va sotto il nome di "sottodeterminazione delle teorie", o "underdetermination thesis": ci si riferisce alla tesi secondo cui i dati empirici da soli non sono in grado di determinare il successo di una teoria scientifica rispetto ad un'altra; piuttosto, vi è in linea di principio un numero infinito di teorie in grado di rendere conto, in modo altrettanto adeguato, di un certo campo di esperienza, ovvero di una certa serie di fatti (meglio: di dati)(61) ; in altre parole, precisando che nel campo di esperienza giuridico il fondamento (quasi-)empirico delle teorie consiste di dati normativi, la scelta a favore dell'una o dell'altra lettura di un medesimo insieme di dati (nel nostro caso: delle scarne disposizioni in materia di diritti della personalità) sarà influenzata in maniera determinante non solo dalle potenzialità esplicative del modello, ma anche dall'intervento di differenti giudizi di valore, ovvero, se si vuole, di differenti presupposti teorici e differenti opzioni di politica del diritto(62) .
Orbene, i presupposti teorici e le esigenze di politica del diritto che muovono rispettivamente le due famiglie di teorie sono in realtà abbastanza trasparenti, e spesso anche apertamente dichiarati. In particolare, i fautori dell'approccio pluralista sostengono normalmente che: a) la definizione della categoria dei diritti della personalità non può essere condotta in maniera aprioristica, sovrapponendo ad un ordinamento giuridico concreto un modello prefissato aliunde; piuttosto, tale definizione deve essere elaborata alla stregua di un ordinamento vigente, ed un'osservazione scevra da preconcetti dell'ordinamento italiano vigente non può che condurre ad individuare alcuni, tipici, diritti della personalità, e non un generale diritto della o alla personalità: sarà anche vero che la personalità è una entità unitaria ed indifferenziata, ma nulla vieta - quantomeno da un punto di vista logico - che il legislatore possa selezionare solo alcuni profili della personalità, ritenuti rilevanti ai fini della tutela giuridica; b) se è così, l'idea dell'unico diritto della personalità o è una formula unitaria e sintetica per denotare i singoli attributi della personalità già dotati di tutela giuridica positiva nel nostro ordinamento, e in tal caso si risolve in un'inutile duplicazione di concetti, oppure essa individua una tutela giuridica autonoma e distinta rispetto alle ipotesi specificamente previste, ma in tal caso occorrerà indicarne il fondamento giuridico positivo; c) infine, accogliere la tesi del diritto generale della personalità è non solo scorretto (per la ragione appena vista), ma anche inopportuno, in quanto estende in maniera indifferenziata l'area degli interessi risarcibili, soprattutto in funzione delle idiosincrasie dei giudici, e moltiplica gli obblighi di astensione e finanche di collaborazione a carico dei consociati(63) .
I sostenitori della concezione monista, dal canto loro, richiamano l'esigenza di completezza della tutela giuridica della persona a fronte dell'incessante evoluzione della società e della tecnica: il progresso tecnico si evolve più velocemente del diritto, e la tutela della personalità nei confronti ad es. dei mass media non può essere irreggimentata in previsioni legislative tipiche destinate ad una veloce obsolescenza; altro argomento ricorrente tra i fautori della tesi monista è quello dell'unitarietà della personalità: si sostiene infatti che "la persona umana può esprimersi, ed in effetti si esprime, all'esterno, in una pluralità di manifestazioni (onore, reputazione, identità personale, riservatezza, ecc.) che sono separate, non autonome, perché esse rappresentano momenti di una realtà (la persona) che è e non può che essere unitaria ed unica"(64) . In altri termini, assumendo che la persona è un'entità unitaria, o perlomeno che così viene percepita nella "coscienza sociale", i fautori della concezione monista ritengono che l'interprete non dovrà arrestarsi di fronte alla paucità e frammentarietà del dato normativo, ma dovrà andare a verificare quali beni o profili della personalità siano meritevoli di tutela giuridica in base agli stimoli ed alle esigenze provenienti dalla società stessa(65) . È agevole scorgere in tali posizioni dottrinali un esempio di argomento interpretativo basato sulla "natura delle cose", ovvero sulla "ipotesi del legislatore impotente"(66) : si tratta di un argomento interpretativo (ma talvolta di un argomento sulla produzione giuridica, e tale sembrerebbe proprio nel caso della concezione monista), che consiste nel sovrapporre agli enunciati normativi un ragionamento proprio di una scienza descrittiva (scienze naturali, scienze economiche, e così via). Un simile modello argomentativo, che opera spesso in maniera più o meno occulta nei discorsi dei giuristi, è comunque ampiamente screditato nella teoria del diritto contemporanea in generale, e nella teoria dell'argomentazione giuridica in particolare, quantomeno in quella di impostazione analitica, che abbraccia la distinzione tra essere e dover essere e la tesi della impossibilità logica di derivare norme da descrizioni di fatto(67) .
È possibile tuttavia rintracciare una diversa, e forse più accettabile, formulazione della teoria monista, che si richiama non già (o non solo) alla natura unitaria della personalità umana, ma alla concezione di persona che emerge dai principi costituzionali; è opportuno però rimandare l'esame di quest'ultima posizione al prossimo paragrafo, quando ci occuperemo delle implicazioni costituzionali della materia dei diritti della personalità.
Orbene, tornando conclusivamente alla questione della sottodeterminazione delle teorie, possiamo osservare quanto segue. I clusters di dati presi in considerazione rispettivamente dalle scienze empiriche-naturali e dalla scienza giuridica presentano, tra le tante, una differenza molto rilevante per il nostro discorso: i dati giuridici si presentano infatti come strutturati su diversi livelli gerarchici (norme costituzionali, legislative, regolamentari…); da questo punto di vista, si può pensare che una teoria dotata di finalità esplicative rispetto ad un segmento dell'esperienza giuridica (come appunto una teoria sui diritti della personalità) risulti maggiormente apprezzabile nella misura in cui riesca a mettere d'accordo in maniera plausibile, o come si suol dire congruente(68) , dati normativi appartenenti a diversi livelli gerarchici (ad esempio, legislativi e costituzionali), rispetto ad una teoria che invece si limiti a "leggere" i dati di un solo livello gerarchico (ad esempio quello legislativo), trascurando i dati potenzialmente rilevanti provenienti da un livello sovraordinato; in altri termini, uno dei due complessi di norme che offrono il riscontro empirico o quasi-empirico potrebbe risultare più "pesante" dell'altro, ad esempio in quanto richiama norme costituzionali o magari, in un differente contesto, norme legislative molto precise e non equivoche, e così via. In tal modo, è possibile che una delle teorie in competizione risulti preferibile rispetto alle altre non in base a giudizi di valore purchessia, ma in base a giudizi di valore provenienti iuxta propria principia dallo stesso campo di esperienza che la teoria intende spiegare.
Se tutto questo è vero, se ne potrebbe concludere che una teoria dei diritti della personalità (pluralista o monista) "costituzionalmente orientata", che fosse in grado di rendere conto in maniera plausibile del posto della garanzia giuridica della personalità nel contesto dei principi costituzionali, sarebbe preferibile (in quanto dotata di potenzialità esplicative più ampie) rispetto ad un'altra teoria (pluralista o monista) che invece trascuri tale livello di analisi. Questo peraltro ci ricorda che il problema va innanzitutto impostato in termini di (spiegazione del) diritto positivo: non si tratta di cogliere improbabili categorie giuridiche dotate di validità metastorica, ma di comprendere le scelte effettivamente presenti all'interno di un ordinamento concreto.
Prima di poter abbozzare una valutazione complessiva dello spazio dei diritti della personalità nel nostro ordinamento, dovremo allora esaminare il ruolo della normativa costituzionale nel sistema dei diritti della personalità.


3. L'impatto dell'interpretazione costituzionale

La materia dei diritti della personalità costituisce uno degli esempi più interessanti della penetrazione di principi costituzionali nel sistema del diritto civile. Le più evidenti manifestazioni (sia in sede dogmatica che giurisprudenziale) dell'influenza di tali principi consistono nell'elaborazione di nuovi diritti (il diritto alla riservatezza e il diritto all'identità personale ne sono gli esempi paradigmatici), ovvero nell'estensione della tutela civilistica ad aspetti della personalità umana in precedenza protetti solo in sede penale (ad esempio l'onore e la reputazione).
Il nuovo modo di considerare il valore della personalità umana, nei suoi diversi aspetti, all'interno dell'ordinamento giuridico viene normalmente ricondotto all'influenza del cd. principio personalistico. Tale principio, dai più considerato uno dei valori fondanti della Costituzione italiana, può essere definito in prima approssimazione come il diritto di ciascuno al libero svolgimento della propria personalità ed alla autodeterminazione personale come irretrattabile valore appartenente ad ogni essere umano(69) .
Quanto al fondamento costituzionale del principio personalista, occorre però notare che la Costituzione italiana appare meno esplicita di altre costituzioni contemporanee nel riconoscere agli individui un diritto al pieno svolgimento della propria personalità, laddove è chiaro che una proclamazione esplicita di un simile diritto potrebbe rappresentare un diretto fondamento costituzionale per i diritti della personalità(70) . Peraltro, non mancano nel testo costituzionale varie disposizioni per così dire "di dettaglio" (ma sono a loro volta disposizioni alquanto generali) che dimostrano la rilevanza costituzionale del libero sviluppo della personalità e della garanzia giuridica della dignità dell'uomo. Si consideri ad esempio la "pari dignità sociale" riconosciuta ad ogni cittadino dall'art. 3; la "eguaglianza giuridica e morale" che l'art. 29, co. 2, riconosce ad entrambi i coniugi; il richiamo al "rispetto della persona umana" come limite ad eventuali trattamenti sanitari obbligatori (art. 32, co. 2) e alla "dignità umana" come limite nei confronti dell'iniziativa economica privata (art. 41, co. 2); l'esigenza che la retribuzione del lavoratore sia idonea ad assicurare a lui ed alla sua famiglia una "esistenza libera e dignitosa" (art. 36)(71) .
Nella ricerca del fondamento costituzionale del principio personalista, comunque, gli studiosi normalmente non si arrestano a tali disposizioni, ma cercano piuttosto di ricollegarle a qualche altra disposizione ritenuta più generale o più fondamentale, che possa assicurare una copertura costituzionale per così dire "globale" alla tutela giuridica della persona umana. In tal senso, sono state percorse essenzialmente due strade. La prima individua la garanzia giuridica generale della persona nel combinato disposto degli art. 2 e 3 Cost., in particolare nei riferimenti contenuti in tali disposizioni alla garanzia ed al riconoscimento dei "diritti inviolabili dell'uomo", nonché dell'obbligo da parte della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono "il pieno sviluppo della persona umana". Secondo un (parzialmente) diverso modo di vedere, invece, il principio personalista troverebbe fondamento non solo e non tanto nell'art. 2, quanto piuttosto nell'art. 13 Cost., che statuisce solennemente che "la libertà personale è inviolabile"; il concetto di libertà fatto proprio da tale disposizione non sarebbe limitato alla libertà fisica, ma includerebbe anche quella morale, risolvendosi (o forse dissolvendosi) quindi nel concetto onnicomprensivo di autodeterminazione personale, ossia di libera autodeterminazione dell'individuo in ordine ai propri comportamenti(72) .
Tale ultima tesi sembra però criticabile, per diverse ragioni. In particolare essa, equiparando libertà fisica e libertà morale, determina l'effetto di estendere anche a quest'ultima la disciplina dettata dall'art. 13, a mente del quale "qualsiasi" restrizione della libertà personale richiede il rispetto di una duplice riserva, di legge e di giurisdizione; in tal modo, non solo qualsiasi provvedimento comportante restrizioni della libertà fisica (detenzione, ispezioni, perquisizioni, e quant'altro), ma anche qualsiasi imposizione di un obbligo da parte dell'autorità (gravante in quanto tale sulla libertà di autodeterminazione dell'individuo) richiederebbe non solo il rispetto della riserva di legge, ma anche l'intervento preventivo e autorizzativo da parte dell'autorità giudiziaria(73) . Abbandonato il riferimento all'art. 13, un diritto alla libertà (non personale ma) individuale potrebbe forse ricavarsi dall'art. 23 Cost., che statuisce che "Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge": tale disposizione, interpretata a contrario, configurerebbe una situazione soggettiva di libertà individuale azionabile tanto contro i poteri pubblici quanto contro quelli privati, confermando così "a livello costituzionale, un principio generale del nostro ordinamento (art. 610 c.p., art. 1372 comma 2 ss. c.c., ecc.) posto a garanzia della libertà morale del soggetto nell'attuazione di prestazioni personali e patrimoniali, garanzia che si risolve nella previsione legislativa di principi, criteri e limiti idonei a delimitare il potere "impositivo" del privato o del pubblico potere"(74) ; il che peraltro non esclude che nella Costituzione siano presenti ulteriori garanzie della libertà di autodeterminazione, rinvenibili ad esempio (oltre che nelle disposizioni citate poco sopra) negli artt. 25, co. 2 e 3, 32, co. 2, e soprattutto 3, co. 2.

3.1. L'art. 2 e il problema dei "nuovi diritti fondamentali"

Precisata la presenza del principio personalista nella Costituzione, e la rilevanza delle norme costituzionali anche per i rapporti interprivati, resta da considerare un'ulteriore profilo di estremo interesse per il nostro discorso, quello del carattere "chiuso" o "aperto" del catalogo delle libertà e dei diritti costituzionali. A tale proposito il dibattito, come è noto, ruota essenzialmente attorno all'interpretazione dell'art. 2 Cost., visto da alcuni come "clausola aperta", da altri come "norma riepilogativa". A ben guardare, comunque, vengono in considerazione due distinte questioni, solo accidentalmente connesse: la prima riguarda la funzione dell'art. 2; la seconda la possibilità o meno di assicurare la cittadinanza nel nostro ordinamento a diritti fondamentali diversi da quelli espressamente previsti in costituzione.
Secondo un primo modo di vedere, la funzione precipua attribuita all'art. 2 presuppone una risposta positiva alla seconda questione; in particolare, l'art. 2, grazie al richiamo in esso contenuto ai "diritti inviolabili", dovrà essere considerato come norma di apertura, come strumento tecnico-giuridico che consente alla giurisprudenza e/o legislatore ordinario di estendere la copertura costituzionale a interessi, esigenze, pretese della persona non espressamente riconosciute nel sistema giuridico, e ritenute nondimeno meritevoli di tutela alla stregua di un qualche criterio di valutazione extragiuridico. Se così non fosse, si dovrebbe sostenere che la qualifica di diritti inviolabili dovrebbe applicarsi ai soli diritti così qualificati dalla Costituzione stessa, vale a dire la libertà personale, il domicilio, la libertà e segretezza della corrispondenza; e in tal caso l'art. 2 sarebbe una disposizione meramente pleonastica e superflua. Quanto poi all'individuazione di tali criteri di integrazione cui farebbe rimando l'art. 2, questi vengono indicati variamente nella (in una) morale o nel diritto naturale(75) , nella coscienza sociale o nella costituzione materiale(76) , nelle Dichiarazioni internazionali dei diritti(77) , o anche in una combinazione di tutti questi elementi(78) .
Secondo un diverso modo di vedere, la tesi della configurabilità di "nuovi diritti fondamentali", diversi e ulteriori rispetto a quelli espressamente previsti dalla costituzione, e magari deducibili dall'art. 2, deve essere decisamente respinta(79) . Infatti, una simile concezione legittimerebbe le più ardite spinte soggettivistiche da parte degli interpreti (i giudici, e i giudici costituzionali in primo luogo), che avrebbero così il potere di introdurre nuovi diritti sulla base di proprie opzioni assiologiche, anche indipendentemente da un plausibile riscontro nel testo costituzionale, e magari nascondendosi dietro il dito della "morale" o della "coscienza sociale": in questo senso, l'art. 2 sarebbe non tanto una norma aperta, quanto una scatola vuota, un cappello a cilindro da cui estrarre sempre nuovi diritti, con grave pregiudizio del valore della certezza del diritto. Quanto poi alle conseguenze concrete dell'interpretazione aperta dell'art. 2, è evidente che l'introduzione di nuovi diritti in favore di determinate categorie di soggetti comporterebbe fatalmente l'imposizione di correlativi obblighi e costi su altre categorie di soggetti (dato che, come si è visto, la costituzione riguarda non solo i rapporti tra il cittadino e lo Stato, ma anche i rapporti interprivati), ma è dubbio che il potere giudiziario (anche di rango costituzionale) sia dotato della legittimazione democratica necessaria per svolgere un ruolo politicamente così incisivo. Tali nuovi diritti, peraltro, molto probabilmente entrerebbero in conflitto con altri diritti costituzionali espressamente previsti: in tal modo si porrebbero le premesse per limitare in via interpretativa diritti costituzionalmente previsti e alterare l'equilibrio disegnato dai costituenti, conferendo surrettiziamente all'interprete un potere (occulto) di revisione costituzionale. Inoltre, i diritti in questione sarebbero anche sottratti al procedimento di revisione costituzionale perché coperti dalla garanzia di inviolabilità dell'art. 2 (almeno secondo una certa interpretazione di tale disposizione). Infine, una volta esteso il catalogo dei diritti fondamentali al di là di quelli espressamente previsti, si può ipotizzare che il metro della loro tutela si risolverebbe nel solo rispetto del principio di ragionevolezza, il che potrebbe poi pericolosamente retroagire sulla (sovrapporsi alla) disciplina costituzionale dei diritti esplicitamente "enumerati"(80) .
Per quanto riguarda poi la funzione dell'art. 2, a tale disposizione dovrebbe essere ascritta una funzione "riassuntiva" o "riepilogativa" dei diritti e delle libertà analiticamente disciplinati dal testo costituzionale; in particolare, essa determinerebbe l'effetto di estendere alle libertà costituzionali una garanzia supercostituzionale di inviolabilità, sottraendole (quantomeno nel nocciolo, nel nucleo essenziale) al procedimento di revisione costituzionale(81) .
In sintesi, è evidente che le alternative emerse a livello dottrinario sui nuovi diritti fondamentali si muovono pressoché interamente - e scopertamente - su un orizzonte di politica del diritto(82) : il valore della certezza del diritto e l'esigenza di vagliare le scelte degli interpreti con i filtri apprestati dall'ordinamento, da una parte; l'esigenza di estendere la garanzia costituzionale a nuovi interessi emergenti, dall'altra. Si può osservare a questo proposito che è probabilmente meritevole il tentativo, da parte dei fautori della teoria della norma aperta, di non pietrificare il testo costituzionale e di mantenerlo in contatto con una realtà sociale che spesso si evolve più velocemente dell'ordinamento giuridico; ogni sistema normativo, infatti, trae vantaggio dall'esistenza di principi-valvola, norme elastiche e clausole generali, che consentono, tramite canali interpretativi, un adeguamento di certi punti nevralgici del sistema alla realtà sociale(83) . Tuttavia, è ovvio che tale adeguamento del sistema, laddove appunto avvenga per vie interpretative, non può attuarsi in assenza di criteri e limiti in qualche modo interni al sistema stesso (sempre che, beninteso, si voglia adeguare il sistema, e non invece sostituirlo).
Sembra allora scuramente più promettente la proposta dei sostenitori della teoria del catalogo chiuso, specialmente laddove sostengono che, invece che inventare nuovi diritti, è sicuramente preferibile percorrere fino in fondo tutte le opzioni offerte dal testo costituzionale, e svilupparle per il tramite dell'interpretazione estensiva, magari utilizzando la forza espansiva del richiamo allo "sviluppo della personalità" contenuto all'art. 3, co. 2.: in tal modo, i nuovi interessi sarebbero comunque soggetti ad un filtro (per quanto elastico e aperto a margini di discrezionalità interpretativa)(84) di rilevanza costituzionale. D'altronde, una osservazione spesso ripetuta da questi studiosi è che, di fatto, i cd. nuovi diritti sono in realtà agevolmente riconducibili, per via di interpretazione estensiva, a diritti costituzionali espressamente previsti, il che renderebbe inutile da un punto di vista pratico, e ancora meno opportuno da un punto di vista politico, concepire l'art. 2 come una valvola di apertura verso il diritto naturale, la coscienza sociale, e simili.
Quest'ultima è stata anche la strada percorsa dalla Corte costituzionale. Nonostante si sostenga spesso che la Corte abbia in un primo tempo abbracciato la teoria dell'art. 2 come norma chiusa e riepilogativa, ed in seguito si sia convertita all'opposta interpretazione dell'art. 2 come norma a fattispecie aperta(85) , in realtà le analisi più attente hanno rivelato come la giurisprudenza della Corte si sia sempre ispirata ad un criterio che potremmo definire di "autointegrazione moderata" del testo costituzionale; in altre parole, pur quando la Corte fonda espressamente le sue decisioni sulla clausola dell'art. 2, in realtà si limita a riconoscere posizioni facilmente riconducibili ad altre disposizioni costituzionali che però non si perita di individuare, lasciando aperte diverse ipotesi interpretative sul fondamento del diritto tutelato(86) . E questo si è verificato puntualmente anche a proposito del riconoscimento, da parte della Corte costituzionale, del diritto all'identità personale (e il discorso, come avremo modo di vedere, si pone in termini sostanzialmente analoghi anche a proposito della Corte di Cassazione )(87). In sintesi, quando ha affermato diritti inviolabili "non scritti", la Corte di solito non è andata molto oltre "un'interpretazione espansiva di norme di legge rispondenti alla ratio del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, alla ratio cioè dell'apprestamento dei mezzi concreti per il godimento dei diritti astrattamente riconosciuti e per il pieno sviluppo della persona"(88) .

3.2. La rilevanza costituzionale dei diritti della personalità

Per concludere, resta da chiedersi quale sia la rilevanza costituzionale dei diritti della personalità, alla luce delle osservazioni svolte nei paragrafi precedenti.
Innanzitutto, sembra di poter affermare che il collegamento tra diritti della personalità e normativa costituzionale sia stato normalmente impostato nei seguenti termini: la teoria monista tende a sposarsi con un interpretazione dell'art. 2 come norma a fattispecie aperta, mentre la teoria pluralista sembra avvicinarsi ad una lettura chiusa (ma può anche fare a meno del livello di giustificazione costituzionale). Peraltro, questo rapporto tra teorie dei diritti della personalità e interpretazione dell'art. 2 non è sempre avvertito con chiarezza, specialmente nel discorso giudiziario: la Corte di Cassazione, ad esempio, in una pronunzia molto importante in tema di diritto all'identità personale (la 3769/1985), ha esplicitamente abbracciato la teoria pluralista dei diritti della personalità, ma affermando al contempo che i diritti della personalità si fondano sull'art. 2 inteso come norma aperta; tale modo di vedere, a nostro giudizio, incorre però in una contraddizione pragmatica: se si accetta la teoria pluralista, non ha molta importanza dilungarsi sul generale valore della persona garantito dall'art. 2.
I sostenitori della teoria monista, una volta "scoperta" la costituzione, si sono fatti promotori, almeno in sede di proclamazioni di principio, di una interpretazione dell'art. 2 come norma aperta, sulla quale fondare la categoria altrettanto aperta dei diritti della personalità. In base a questo modo di vedere, la considerazione unitaria della persona da parte dell'ordinamento giuridico sarebbe richiesta dai principi contenuti agli artt. 2 e 3 Cost., in particolare nella misura in cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, e assicura la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana(89) . Peraltro, in questa ottica il richiamo ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale contenuto nel medesimo art. 2 può servire a giustificare quegli obblighi di astensione e di cooperazione paventati dai sostenitori più intransigenti della concezione pluralista(90) . Residua comunque, a nostro avviso, il problema della selezione degli interessi della personalità giuridicamente (e in ipotesi costituzionalmente) rilevanti; e qui nuovamente, seppur con il tramite dell'art. 2, il serbatoio cui attingere è indicato nella coscienza sociale, in esigenze etiche variamente decodificate dall'interprete, e così via.
I sostenitori della teoria pluralistica, di contro, assai raramente hanno fatto ricorso al livello di giustificazione costituzionale, ritenendo invece (non solo necessario ma anche) sufficiente che l'interesse considerato riceva tutela a livello legislativo(91) .
A nostro giudizio, se è vero che la costituzione italiana ha tra i suoi principi fondamentali quello personalistico, questo tuttavia non determina necessariamente un cambiamento di paradigma nelle teorie dei diritti della personalità, e il conseguente abbandono di un approccio pluralista: un approccio pluralista, infatti, può essere proficuamente associato a quella che abbiamo chiamato autointegrazione moderata del testo costituzionale, in base alla quale la rilevanza costituzionale di ogni singolo diritto della personalità dovrà essere vagliata a fronte delle indicazioni provenienti dal testo costituzionale stesso. In altre parole, una volta riconosciuta la rilevanza costituzionale dei diritti della personalità, questo permette una espansione dei diritti della personalità tipizzati nell'ordinamento, condotta in base ad un'interpretazione estensiva ed adeguatrice delle disposizioni esistenti in base ai principi costituzionali.


4. I possibili effetti sistematici della L. 675/1996

Il quadro della posizione dei diritti della personalità nel diritto italiano è stato ora arricchito dalla recente legge n. 675/1996, accolta peraltro da reazioni assai contrastanti. Sin dall'indomani della sua entrata in vigore, infatti, sono maturati tanto nell'opinione pubblica quanto nella cultura giuridica due atteggiamenti di segno opposto: da una parte coloro che hanno accolto con grande soddisfazione la novella legislativa, considerandola un passaggio necessario per il nostro sistema giuridico e per la società italiana in generale, anche a fronte della necessità di mettersi al passo con gli altri paesi europei; dall'altra, le reazioni più o meno allarmate di coloro che hanno ravvisato nella legge gravi rischi per la libertà di espressione, e per l'attività giornalistica in particolare, rischi derivanti tra le altre cose dall'infelice formulazione di taluni passaggi della legge, e da un eccesso di poteri conferiti alla Autorità Garante istituita dalla legge stessa(92) .
L'enorme interesse che questa legge ha suscitato presso gli operatori del diritto, appare testimoniato dal profluvio di contributi scientifici, sotto forma di saggi specialistici(93) , commentari sistematici(94) , o atti di convegni(95) , apparsi sull'argomento nei pochi anni di vita di questa legge. Prendere puntualmente posizione in tale dibattito esulerebbe dall'ambito del presente lavoro; cercheremo pertanto di limitare le nostre osservazioni esclusivamente a quei profili della L. 675/1996 che ci interessano più da vicino, con particolare riguardo ai possibili effetti sistematici di tale legge. Per "effetti sistematici" intendiamo comunque, ai fini delle brevi osservazioni di questo paragrafo, soltanto quelli che tale legge può determinare rispetto al "sistema" dei diritti della personalità, e non rispetto ad altri "sistemi" di portata più o meno ampia, come ad esempio quello della responsabilità civile, oppure quello della tutela inibitoria, oppure ancora quello dei rapporti tra autorità amministrative indipendenti.
L'ambizione "sistematica" della legge, peraltro, è stata colta da diversi commentatori, che hanno osservato che la legge non mira ad introdurre una disciplina di settore, ma rappresenta in realtà un vero e proprio statuto giuridico delle informazioni riguardanti la persona; ciò sarebbe testimoniato anche da alcune caratteristiche peculiari della tecnica legislativa impiegata: la previsione di successivi decreti correttivi e integrativi, la delega attribuita al governo (con la legge 676/1996) ad emanare decreti concernenti gli aspetti più tecnici della materia, la previsione della emanazione di un codice deontologico per i giornalisti, il frequente ricorso alle clausole generali, sembrano altrettanti indizi del fatto che tale legge si proponga come una sorta di legge quadro sulla tutela della persona (non entrando nel merito della correttezza costituzionale di tale tecnica sul piano dei rapporti tra fonti del diritto).
A parere di alcuni, dunque, la nuova legge avrebbe determinato un radicale cambiamento nel panorama della tutela della personalità, non solo per quanto riguarda i profili specifici di disciplina in essa contenuti, ma anche per i possibili effetti sistematici che essa è verosimilmente destinata a sortire. È stato osservato, a questo proposito, che con la L. 675/1996 si è inaugurata una sorta di "quarta fase" nella tutela della personalità nel nostro ordinamento: dopo una prima fase, caratterizzata dall'estrema paucità delle disposizioni del codice civile in materia, si è passati ad una seconda, segnata dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana che ha costituzionalizzato alcuni diritti ed ha introdotto nell'ordinamento le nozioni di "diritti inviolabili dell'uomo" e di "svolgimento della personalità", e quindi ad una terza fase, in cui la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato nuovi spazi di tutela della persona anche tramite il riferimento all'art. 700 c.p.c., nel tentativo di superare la tradizionale interpretazione restrittiva degli artt. 2043 e 2059 c.c.; quella attuale sarebbe quindi una quarta fase, caratterizzata da una tutela più ampia e con una marcata attenzione al momento preventivo, utilizzando una sorta di presunzione di lesività delle attività di raccolta e trattamento dei dati personali(96) .
Da un punto di vista sistematico, dunque, uno dei primi elementi che sembrano degni di nota consiste nell'esplicita menzione, già nell'art. 1 della legge(97) , di alcuni diritti che la legge intende tutelare. In particolare, si fa riferimento ai diritti, alle libertà fondamentali e alla dignità delle persone, e vengono incluse espressamente in questa categoria di beni protetti la riservatezza e l'identità personale (ai quali si possono aggiungere il diritto all'oblio e il c.d. diritto sui propri dati).
Non sembra potersi contestare che siamo in presenza della consacrazione legislativa di alcuni diritti della personalità frutto di creazione giurisprudenziale. In contrario, è stato osservato che mentre in linea generale la riservatezza e l'identità personale vengono lese solo a fronte di una comunicazione o diffusione sociale dei dati, la legge tutela i dati indipendentemente dalla loro comunicazione e diffusione, e pertanto essa non intende tanto riconoscere quei diritti, quanto crearne uno nuovo e distinto, un diritto sui propri dati(98) ; ma tale obiezione non sembra colpire nel segno, se è vero che in base all'art. 3 della legge è considerato irrilevante il trattamento di dati effettuato a soli fini personali, sempre che i dati non siano destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione: il punto di vista prospettico della legge, o, come si suol dire, il punto di incidenza oggettiva della tutela, è comunque la proiezione sociale della personalità che può derivare dal trattamento.
L'interrogativo allora è se, in seguito all'entrata in vigore di questa legge, disponiamo di un elemento in più per risolvere la dicotomia tra teorie moniste e pluraliste dei diritti della personalità. Ebbene, sembrerebbe che il riconoscimento legislativo di (quantomeno) alcuni diritti della personalità rappresenti una sorta di conferma dell'approccio pluralista(99) . Tale conclusione è a nostro giudizio assolutamente condivisibile e anzi, a ben vedere, non potrebbe essere diversamente. Infatti, un approccio come quello monista risulta appropriato in un contesto nel quale determinati interessi e determinate istanze di garanzia della persona siano giuridicamente riconosciuti solo a livello di clausole generali, per di più di rango costituzionale; in un contesto simile, quale ad es. è stato a lungo quello tedesco, è piuttosto ovvio che i vuoti di disciplina legislativa siano colmati in sede giudiziaria, con tecniche di tipo rimediale e "difensivo" che possono bene essere giustificate da un approccio di tipo monista. Ma nel momento in cui si passa da una normativa per clausole generali ad una di dettaglio, quale quella introdotta nel '96, la prospettiva non può fare a meno di mutare nella direzione - di marca pluralista - della tipizzazione legislativa di singoli aspetti della personalità.
Rispondendo ad un quesito che avevamo lasciato in sospeso (cfr. supra, § 2.2), possiamo dire quindi che - attualmente - un approccio pluralista sembra avere maggiori potenzialità esplicative di uno monista. Il punto è casomai che, una volta evidenziata la rilevanza costituzionale dei diritti della personalità, anche un tale approccio pluralista non può fermarsi alla considerazione del solo livello legislativo, a pena di rinunciare ad un importante livello di analisi. Di questa esigenza (vale a dire, in altre parole, di tentare un raccordo tra livello legislativo e livello costituzionale) sembra peraltro tenere conto la stessa legge 675/1996, con il richiamo ai diritti e libertà fondamentali ed alla dignità contenuto all'art. 1. La formulazione della disposizione in esame, infatti, sembra quasi considerare scontata o sottintesa la rilevanza costituzionale di quei diritti, in funzione - in termini molto generali - del pieno sviluppo della personalità(100) .
Ciò evidentemente non equivale a sostenere che il legislatore ha in tal modo introdotto una legge dotata di una surrettizia rigidità costituzionale, o che ha introdotto un nuovo diritto inviolabile che va ad iscriversi nella lista aperta dell'art. 2 Cost.; più modestamente, il richiamo alla dimensione costituzionale ha in primo luogo il significato di ribadire che la legge sta istituendo un bilanciamento tra due categorie di interessi antagonisti dotati entrambi di rilevanza costituzionale: i diritti della persona da una parte, la libertà di manifestazione del pensiero dall'altra.
Restano da considerare, sebbene solo in punta di penna, due ulteriori possibili profili sistematici della legge: il concetto di privacy che la legge sembra suggerire, e il bilanciamento con la libertà di manifestazione del pensiero in generale, e con l'attività giornalistica in particolare.
Quanto al primo punto, la legge sembra confermare una tendenza in atto ormai da tempo (cui avevamo fatto cenno supra, § 1), che segna il superamento della concezione originaria della privacy o riservatezza come diritto all'intimità della propria sfera privata, come ius excludendi alios dalla conoscenza di una serie di fatti privati, nella direzione invece di una serie di poteri di controllo sulle informazioni che riguardano la persona. In questo senso, e al pari di altre recenti legislazioni sul trattamento dei dati personali, anche la legge 675/1996 pone l'accento in maniera determinante sull'elemento del consenso informato da parte dell'interessato, segnando così una "transizione da un modello di tutela passiva (divieti) ad un insieme di strumenti di difesa attiva (consenso, accesso, informazione)"(101) . Un altro aspetto della evoluzione del concetto di riservatezza, anch'esso presente nella legge, consiste poi nella tendenza a superare l'originaria collocazione spaziale della riservatezza (ciò che accade tra le mura domestiche, ad esempio), per assumere invece una dimensione contenutistica(102) : la tutela riguarda non un luogo determinato (e qui si rivela nuovamente l'originaria connessione tra riservatezza e proprietà cui abbiamo accennato supra, § 2), ma una serie di informazioni personali, che per avventura possono anche avere a loro volta una connotazione pubblica. In tal senso si inquadra una disposizione come l'art. 22 della legge, che individua una serie di dati sensibili, tra i quali vi sono quelli idonei a rivelare l'origine razziale o etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, l'appartenenza a sindacati, associazioni, organizzazioni culturalmente e/o politicamente orientate, e quant'altro(103) . La tutela della riservatezza, che in maniera apparentemente paradossale è estesa a fatti pubblici o comunque a convinzioni destinate ad estrinsecarsi in pubblico, ha qui una evidente finalità antidiscriminatoria: essa mira a tutelare non più (non solo) l'isolamento dell'individuo, ma anche la pienezza della sua partecipazione alla vita sociale al riparo da stigmatizzazioni e discriminazioni)(104) .
Fin qui le intrusioni nella sfera della riservatezza assistite da consenso e controllo da parte dell'interessato. Speculare a questo è poi il secondo ed ultimo profilo di cui ci occuperemo, che riguarda invece le ipotesi in cui le invasioni nella sfera di riservatezza avvengano a prescindere dalla (e, a ben vedere, contro la) volontà dell'interessato: si tratta evidentemente dei casi in cui il trattamento dei dati avvenga nell'esercizio della professione di giornalista.
Qui la legge tenta un difficile bilanciamento tra diritti ed interessi che si assumono dotati di pari rango costituzionale, che viene risolto in via generale e astratta nei seguenti termini (art. 25): per tutti i dati, compresi quelli sensibili visti poco sopra (ma esclusi quelli relativi allo stato di salute e alla "vita sessuale"), non è necessario che il trattamento sia assistito dal consenso dell'interessato, sempre che il trattamento sia effettuato nel perseguimento delle finalità della professione di giornalista, e rispettando il diritto di cronaca ("con particolare riferimento all'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico"), e sempre che sia conforme a quanto stabilito dal codice deontologico. Ora, prima dell'entrata in vigore di questa norma, il bilanciamento tra diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero era condotto sulla base del criterio - di creazione giurisprudenziale - della sussistenza di un interesse pubblico alla rivelazione di determinati fatti. L'articolata formulazione della disposizione in esame non sembra introdurre grandi novità su questo punto, ove si ponga mente al fatto che i limiti del diritto di cronaca previsti dalla legge 69/1963 (recante l'ordinamento professionale del giornalista) consistono: nella tutela della personalità altrui (e qui, circolarmente, la tutela è quella della stessa legge 675/1996 all'interno della quale l'art. 25 funge da eccezione), e nel rispetto della verità sostanziale dei fatti (ma è proprio la diffusione di fatti veri a ledere la riservatezza).
In conclusione, l'unico effettivo criterio di bilanciamento è dunque quello dell'interesse pubblico(105) , arbitro del quale è, in definitiva, il giudice del caso concreto: ma, nonostante i paventati intenti censori della legge, gli effetti sistematici su questo punto appaiono in realtà pressoché nulli.


5. Il contributo dell'analisi economica del diritto

La nostra analisi termina con una valutazione del contributo dell'analisi economica del diritto nel panorama delle teorie dei diritti della personalità, contributo invero (quantitativamente) assai modesto e accompagnato sovente dal sospetto di essere o inutile o dissacrante. Infatti, per un verso, si è a lungo dubitato che in questa materia, concernente gli aspetti ideali o morali della persona, gli strumenti di indagine gius-economici potessero essere in alcun modo utili o adeguati. Per altro verso, a fronte delle tradizionali definizioni dei diritti della personalità come diritti innati, essenziali ecc., una analisi in termini gius-economici appare senza dubbio provocatoria; peraltro, è pur vero che le analisi svolte sono state di fatto animate da fini più o meno demistificatori, con l'intenzione di sovvertire modi di pensare ricevuti forieri di inefficienze economiche.
A ben vedere, comunque, è bene distinguere due possibili livelli di analisi gius-economica dei diritti della personalità: ad un primo livello si collocano le problematiche che hanno una diretta incidenza di tipo economico, ossia che influiscono in via diretta e immediata sull'attività di determinati operatori economici (ad esempio: tutela della reputazione individuale contro i mass media); qui in realtà l'uso di concetti e strumenti economici non sembra meno adeguato che nello studio di altri settori del mercato (sempre che, beninteso, si accetti la validità dell'approccio gius-economico come specifica metodologia di indagine). Ad un secondo livello, invece, si situano i profili dei diritti della personalità che non hanno una incidenza economica diretta, fatta salva la questione dei costi sociali (più o meno) indiretti che qualsiasi istituto giuridico è destinato a sortire (ad esempio: tutela della riservatezza contro le intercettazioni telefoniche illegali); qui i diritti della personalità sono considerati dai giureconomisti quasi come un banco di prova, un test-case per saggiare la validità degli strumenti economici in contesti diversi rispetto alle tradizionali problematiche del mercato (come, del resto, si è provato a fare ripetutamente: in merito al "mercato" delle adozioni e dei trapianti d'organo, all'aborto, alla pena di morte).
Nella duplice prospettiva ora delineata si inquadrano i pochi contributi esistenti di analisi economica dei diritti della personalità, che provengono quasi tutti da studiosi statunitensi(106) , e che adottano come principali oggetti di indagine: a) la privacy e i problemi ad essa connessi; b) la tutela della reputazione in rapporto alle attività dei mezzi di comunicazione di massa. Ciò ovviamente senza considerare le possibili ricadute, nel campo dei diritti della personalità, di svariate problematiche giuridiche che possono essere affrontate da una prospettiva di analisi economica (a mero titolo di esempio: il problema dei punitive damages, il rapporto tra tutela inibitoria e tutela risarcitoria, l'incidenza su di una medesima materia della sanzione civile e di quella penale, oppure più in generale gli effetti di una certa regolamentazione del mercato dell'informazione).

5.1. Analisi economica del diritto e privacy

La privacy ha attirato l'interesse dei giureconomisti grossomodo a partire dalla fine degli anni settanta; in tale periodo troviamo alcuni pionieristici lavori di Posner(107) , nonché un simposio su "The Law and Economics of Privacy" coordinato dal Center for the Study of the Economics and the State dell'università di Chicago, i cui atti sono stati poi pubblicati in un fascicolo monografico del Journal of Legal Studies(108) .
Limitandoci per comodità al lavoro di Posner, esso presenta i seguenti tratti principali: in primo luogo, la privacy viene considerata non un bene o valore in sé, ma piuttosto un bene o valore intermedio, strumentale rispetto alla produzione di reddito, benessere o qualche altra utilità. In secondo luogo, secondo Posner la nozione corrente di privacy può essere rapportata ad almeno quattro ordini di interessi: seclusion, innovation, confidentiality of communication, concealment of personal facts.
Sinteticamente, la seclusion è volontà di ridurre le relazioni sociali, il che da un punto di vista economico è segno di egoismo(109) : se le market transations creano utilità per i terzi (il cd. surplus del consumatore), lo stesso può forse valere anche per le relazioni umane che stanno fuori dal mercato: chi si impegna in rapporti come l'amore e l'amicizia probabilmente dà o è disposto a dare anche più di quanto riceva, col risultato che chi si ritira dal mondo riduce il proprio contributo al benessere della società. Allo stesso modo si capisce come la privacy perda tale aura negativa laddove essa costituisca parte integrante di un lavoro intellettuale, ad esempio come segreto professionale, oppure ogniqualvolta sia necessaria a promuovere l'innovazione produttiva(110) ; da quest'ultimo punto di vista, infatti, una volta che l'informazione è di pubblico dominio, essa perde in tutto o in parte il suo valore economico; pertanto, per incoraggiare la ricerca e l'innovazione è essenziale garantire all'inventore il segreto, oppure diritti di privativa. Inoltre, un certo grado di seclusion può essere (economicamente) giustificato al fine di garantire la segretezza delle comunicazioni e della corrispondenza(111) ; viceversa, ossia in un regime di liberalizzazione delle intercettazioni, il probabile effetto sarebbe non tanto quello di scoraggiare il diffondersi di notizie false, quanto quello di indurre ad affinare le tecniche di crittazione delle comunicazioni riservate, rendendo quindi più costoso controllare tali informazioni.
Infine, il problema del controllo da parte dell'individuo sulle informazioni che lo riguardano, che Posner definisce (provocatoriamente) concealment of personal facts, quali potrebbero essere delle attività criminali presenti o passate, o una condotta morale difforme dagli standard professati dallo stesso interessato(112) . L'interesse ad evitare la circolazione di notizie personali è strettamente connesso al desiderio di diffondere di sé un'immagine positiva, che permetta di instaurare relazioni sociali (rapporti di amicizia, legami affettivi, rapporti di lavoro) a condizioni favorevoli: l'individuo si "vende" sul mercato delle relazioni sociali allo stesso modo in cui un produttore vende i suoi prodotti, ed è portato quindi ad evidenziare le proprie qualità e ad occultare i difetti; d'altro canto, ed esattamente per gli stessi motivi, anche i terzi possono avere un interesse apprezzabile a conoscere informazioni personali sulle persone con cui vengono a contatto a vario titolo. Ora, la domanda del giureconomista è: quale regolamentazione giuridica di questo aspetto della privacy va nella direzione di una migliore efficienza allocativa? Una soluzione potrebbe consistere nel coprire tali informazioni con diritti di privativa, eventualmente cedibili a titolo oneroso, ma a ben vedere tale soluzione non sarebbe economicamente giustificata, in quanto a differenza dall'ipotesi della innovation il titolare dell'informazione normalmente non ha effettuato alcun investimento né ha sopportato alcun costo per essa: in difetto di protezione la "produzione" di informazioni non verrebbe in alcun modo disincentivata(113) . Inoltre, tale regime renderebbe eccessivamente costose e quindi antieconomiche alcune attività socialmente utili, quali ad esempio le rilevazioni statistiche.
Qualche breve osservazione. L'analisi di Posner ha degli inconfondibili tratti provocatori (come accennato sopra, il vero nocciolo del discorso sembra spesso la demistificazione della privacy come valore in sé degno di considerazione sociale e giuridica), e può apparire talvolta arida nei suoi continui paralleli tra relazioni personali e rapporti di mercato. Essa colpisce tuttavia per la sua accuratezza nel denervare le molteplici prospettive ed i molteplici interessi che si sovrappongono in questa materia, nonché per un insospettabile equilibrio nelle soluzioni proposte. Restano però, a nostro giudizio, i seguenti limiti.
Innanzitutto, Posner sembra mettere tutte le informazioni personali sullo stesso piano, senza tenere in considerazione la rilevanza del contesto nel quale vengono utilizzate le informazioni, laddove è chiaro che occorre distinguere: a) le informazioni "neutre" dalle informazioni "delicate": è quantomeno dubbio che si possano mettere sullo stesso piano dati personali quali, ad esempio, l'essersi diplomato in una certa scuola e l'essere affetto da una certa malattia (non a caso, questa distinzione è conosciuta dalla quasi totalità delle leggi recenti in materia di riservatezza); b) le informazioni verso le quali i terzi possono avere un apprezzabile interesse dalle informazioni che vengono carpite e diffuse solo per morbosa curiosità: un datore di lavoro può avere un interesse apprezzabile a sapere se il candidato ad un certo posto di lavoro abbia appena finito di scontare una condanna perché ha commesso un certo tipo di reato, ma non a conoscerne i gusti sessuali o le opinioni politiche.
Tocchiamo così il problema del rapporto tra privacy e discriminazione, che Posner ha ben presente(114) : alcune persone possono voler tenere riservate certe informazioni (origini razziali, gusti sessuali, preferenze politiche) al fine di evitare pregiudizi e reazioni irrazionali da parte delle persone con cui vengono in contatto; la risposta di Posner è che anche tale forma di riservatezza è economicamente ingiustificata, perché in tal modo si ignorano i costi-opportunità (opportunity costs) derivanti dalle discriminazioni irrazionali: il datore di lavoro che rifiuta di assumere un ottimo lavoratore perché omosessuale farà una scelta (per lui) antieconomica, favorendo i datori di lavoro non bigotti; la morale è che alla fine il mercato trionferà, facendo giustizia dei pregiudizi infondati. Il limite dell'analisi di Posner diventa tuttavia evidente ove si rifletta che, esattamente come il mercato dei rapporti economici, anche il "mercato dei rapporti sociali" è ben lungi dall'essere un mercato concorrenziale perfetto, anzi ci sono buoni motivi per supporre che quest'ultimo sia guidato da canoni meno razionali rispetto al primo; e la correzione delle diseconomie e delle esternalità negative che alcuni concorrenti (nel nostro esempio, i datori di lavoro bigotti) scaricano su altri concorrenti, appartenenti a minoranze colpite da forme di stigmatizzazione sociale, può richiedere molto tempo ed ingenti costi (anche) sociali: si pensi solo alle numerose problematiche collegate alle azioni positive(115) . A fronte dell'intramontabilità di alcuni pregiudizi, la fiducia nelle virtù del mercato come dispensatore di giustizia correttiva sembra pertanto eccessiva, e ignora i costi (comunque li si voglia qualificare e quantificare) che vengono scaricati sulle possibili vittime della discriminazione e del pregiudizio: in tale quadro, proteggere la riservatezza di alcuni dati, quantomeno fino ad un certo livello o relativamente a certi contesti di utilizzo, è forse una soluzione economicamente più vantaggiosa.
Infine, una assunzione strisciante nel discorso di Posner è che il gossip, o comunque la circolazione delle informazioni personali, ha sovente una funzione economica positiva, in quanto rende possibile selezionare possibili relazioni fruttuose ed evitare possibili relazioni dannose; viceversa, chi tiene riservati certi fatti è spesso animato dalla volontà di manipolare il prossimo. Ora, anche qui non ci si deve fare sviare dall'analogia con il mercato perfetto, caratterizzato dalla perfetta informazione sulla qualità dei beni: in particolare, non dovrebbe perdersi di vista la circostanza che spesso tramite il pettegolezzo sono diffusi fatti non veri, o talvolta fatti veri ma decontestualizzati e deformati. Fino a che punto siamo disposti a pensare che queste market failures si aggiusteranno da sé? Ma così siamo passati dalla tutela della privacy a quella della reputazione.

5.2. Analisi economica del diritto e tutela della reputazione

L'altro profilo dei diritti della personalità oggetto di indagine da parte di alcuni giureconomisti è rappresentato dalla tutela della reputazione, specialmente in rapporto alle attività delle imprese di comunicazione di massa. A differenza dalla trattazione che Posner dedica alla privacy, qui non troviamo tentativi di ridefinizione finalizzati ad isolare le aree (economicamente) meritevoli di tutela; piuttosto, il tema di indagine consiste nel chiedersi quale livello di tutela per la reputazione sia compatibile con l'obiettivo della massimizzazione dell'efficienza; in altre parole, quali siano gli standard di responsabilità cui vincolare le imprese di comunicazione di massa per le loro attività lesive della reputazione individuale.
Nuovamente, le analisi più penetranti provengono da studiosi statunitensi(116) , e hanno avuto ad oggetto in particolare il regime istituito dalla sentenza New York Times v. Sullivan (1964), e sviluppatosi in seguito ad essa. Il compito è reso loro in un certo senso più facile in quanto, come a suo luogo abbiamo avuto modo di notare, tale sentenza sembra ispirarsi più o meno consciamente (anche) ad una logica di tipo economico nella distribuzione dei costi da sopportare in seguito alle attività dei mass media. Come si ricorderà, in base a tale regime si deve distinguere tra personaggi pubblici e comuni cittadini; i primi non possono ottenere ristoro contro le affermazioni diffamatorie propalate da mezzi di comunicazione di massa a meno che essi non dimostrino che tali affermazioni sono state pubblicate con dolo o con trascurata noncuranza della loro falsità; se invece il diffamato è un comune cittadino si possono applicare i criteri dell'ordinaria diligenza, escludendo comunque che si possa mai pervenire ad una responsabilità oggettiva dell'impresa di comunicazione. Si tratta dunque di un sistema fortemente sbilanciato a favore delle imprese di comunicazione, quantomeno nei casi in cui sono coinvolte public figures.
Il primo passo dell'analisi economica del regime appena delineato consiste nel tratteggiare una analisi costi benefici delle possibili discipline della diffamazione; ad esempio, quali sarebbero le conseguenze se i pubblici funzionari non potessero mai agire per diffamazione (è un caso limite, ma simile in modo preoccupante a quello americano)? Si determinerebbe una esternalità negativa: il diffamatore svolge una attività il cui costo è quasi interamente addossato alla vittima (quasi: perché anche il diffamatore mette a rischio la propria reputazione e si espone a ritorsioni); il livello delle affermazioni false crescerà fino a quando il beneficio del singolo non raggiungerà l'equilibrio con il costo marginale(117) . La conseguenza è che un sistema senza alcuna protezione per la reputazione è un sistema con troppa diffamazione, e troppa disinformazione.
Una qualsiasi disciplina della diffamazione deve tenere in considerazione, oltre quelli ricadenti sulla singola impresa tenuta ad esborsi risarcitori, almeno due tipi di costi o effetti su scala sociale: a) essa condiziona il modo in cui certe persone si determinano a prendere parte al dibattito pubblico: chi investe somme consistenti nella propria reputazione sarà disincentivato a partecipare al dibattito pubblico se il prezzo da pagare è la perdita di tutto o parte del loro "capitale reputazionale"; b) il livello del dibattito pubblico non consiste semplicemente nella somma quantitativa delle affermazioni espresse, ma anche nella loro "qualità": in assenza di protezione dalla diffamazione le affermazioni false aumenteranno, e la società diventerà sempre più diffidente circa le notizie in circolazione.
Utilizzando la metafora del "libero mercato delle idee", e considerando la reputazione individuale al pari di un diritto di proprietà privata, si arriva alla suggestiva conclusione che anche tale mercato ha bisogno di un livello di regolamentazione e protezione contro determinate attività lesive, perché viceversa si determinerebbe una condizione in cui ciascuno può essere liberamente espropriato della propria reputazione in vista dell'interesse sociale ad un "dibattito libero, vivo, e aperto" sulle questioni pubbliche; la situazione sarebbe economicamente inefficiente giacché si verificherebbe una diminuzione del valore delle risorse umane, a fronte della quale non sarebbe tuttavia previsto alcun indennizzo(118) .
Quanto alla analisi economica della New York Times rule, il giudizio diffuso presso i giureconomisti è che essa è idonea a determinare inefficienze non solo per le vittime della diffamazione, ma anche per la società nel suo complesso nonché per le stesse imprese di comunicazione (la cui attività intendeva tutelare). In particolare, a) dal punto di vista del (singolo) diffamato, abbassando la soglia di protezione tale disciplina impone a persone innocenti di sopportare i danni che possono essere loro inflitti da altri, anche quando ciò avvenga per colpa. In secondo luogo, b) dal punto di vista delle (singole) imprese di comunicazione, tale disciplina ha avuto come conseguenza un sistematico aumento degli importi risarcitori, rispecchiando la regola secondo cui quanto più si riducono le possibilità di successo per l'attore, tanto più è probabile che aumenti il risarcimento eventualmente concesso; ciò ha inoltre comportato un aumento delle spese legali sostenute dalle parti in giudizio, aumento direttamente proporzionale alla incertezza ed imprevedibilità dell'esito della causa(119) . Inoltre, c) dal punto di vista delle imprese di comunicazione nel loro complesso, l'abbassamento dei livelli di responsabilità determinato dalla New York Times rule induce ad impiegare un livello di diligenza sub-ottimale: invece di sopportare il costo X per evitare la produzione di danni, l'impresa preferirà impiegare la più contenuta somma <X per dimostrare che il danno è colposo e non doloso; in tal modo peraltro si favoriscono i produttori di qualità inferiore: si evita che questi ultimi debbano sopportare dei costi aggiuntivi per adeguarsi a canoni di diligenza e quindi di responsabilità più esigenti, canoni che magari sono di già volontariamente (cioè per cosciente scelta editoriale) rispettati dalle testate di qualità più elevata. Ancora, d) dal punto di vista dei consumatori nel loro complesso, la disciplina è dannosa perché pone sullo stesso piano notizie vere e notizie false, sempre che per queste ultime non si dimostri che l'editore avesse tenuto una condotta gravemente negligente(120) . Infine, e) dal punto di vista della società nel suo complesso, la disciplina è dannosa perché comporta un aumento delle spese per il funzionamento della giustizia (in quanto i processi per diffamazione diventano più lunghi e complessi), e perché non porta alcun contributo all'accertamento della verità.
A fronte di una simile condizione di inefficienza economica, i giureconomisti si sono cimentati nell'elaborazione di modelli giudicati più idonei, che ad esempio introducano aree di responsabilità oggettiva a carico delle imprese di comunicazione riguardo alle notizie e alle affermazioni di fatto, integrate da tetti massimi di risarcimento e da una scriminante assoluta per le opinioni(121) ; oppure sistemi di responsabilità attenuata che, fissati certi standard di diligenza professionale, determinano il risarcimento in funzione della deviazione da quegli standard(122) .
Passando ad un brevissimo esame della diffamazione nel sistema italiano, la prima caratteristica è che vige un doppio binario: responsabilità dolosa da una parte (che comporta la sanzione penale, e il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali), responsabilità colposa dall'altra (che comporta solo il risarcimento dei danni patrimoniali). Rispetto al sistema americano, vi sono poi delle altre differenze di rilievo da tenere in considerazione anche nella prospettiva dell'analisi economica: manca la distinzione tra public figures e persone private, l'onere della prova è distribuito in maniera diversa, le spese legali seguono la soccombenza. Tuttavia, anche il sistema italiano presenta profili di inefficienza economica(123) . In particolare, a) quanto alla responsabilità colposa, essa porta al solo risarcimento dei danni patrimoniali, che sovente possono essere praticamente insussistenti; b) quanto alla responsabilità dolosa, oltre a riproporsi le considerazioni già svolte a proposito del sistema americano, si deve notare che le sanzioni risarcitorie non hanno funzione punitiva (come invece gli exemplary damages del diritto americano) ma solo restitutoria e/o ripristinatoria, che l'ammontare dei risarcimenti e delle pene pecuniarie liquidati dalle corti italiane è straordinariamente basso, e che le spese legali seguono la soccombenza; il quadro complessivo legittima il sospetto che le imprese di informazione, anziché investire ingenti somme nel controllo approfondito delle fonti di informazione e nella riqualificazione professionale dei giornalisti, possano giudicare più conveniente la prospettiva di una eventuale condanna per diffamazione, peraltro incerta nella sua consistenza ed effettività.
Una analisi economica suggerisce pertanto(124) : a) di spostare l'intervento sanzionatorio sul piano civile, o comunque su quello delle sanzioni economiche; b) di attribuire al risarcimento del danno non patrimoniale una funzione afflittiva; c) di applicare tali sanzioni non solo ai comportamenti dolosi ma anche a quelli colposi, imponendo in tal modo ai giornalisti il rispetto di criteri di diligenza concretamente accertabili.