ALCUNE CHIARIFICAZIONI CONCETTUALI SULLA NOZIONE DI INCLUSIVE POSITIVISM*

Vittorio Villa

1) Introduzione

In questo saggio vorrei intervenire nella vivace discussione che si è sviluppata in tempi recenti [1] sulle possibili interpretazioni del giuspositivismo di matrice hartiana, discussione che si è prevalentemente polarizzata attorno a due sue differenti versioni: l'inclusive legal positivism [2] (espressione che preferisco a incorporationism [3] e a soft positivism [4], che pure sono usate con riferimento a tale concezione) e l'exclusive legal positivism [5]. Quello che voglio mostrare è che questa discussione, vista nel suo complesso, nasce viziata da alcuni fraintendimenti concettuali che non consentono una chiara individuazione di quella che è in effetti la "materia del contendere" fra queste due concezioni, e che, conseguentemente, rendono più tortuoso e accidentato il percorso per chi voglia accingersi a difendere e/o a sviluppare ulteriormente una delle due.
Il mio interesse, comunque, è rivolto in particolare all'inclusive legal positivism, nella convinzione che esso rappresenti la versione più difendibile e promettente (perché suscettibile di più fecondi sviluppi futuri) del giuspositivismo hartiano. Da questo punto di vista, pertanto, cercherò di fornire alcune chiarificazioni concettuali, prevalentemente di carattere epistemologico, metodologico e meta-teorico, con l'obiettivo specifico (che certo non può essere raggiunto compiutamente nello spazio di questo saggio) di rendere questa concezione internamente più coerente ed esternamente più difendibile rispetto a quanto i suoi proponenti siano sinora riusciti a fare.
Le chiarificazioni concettuali che verranno fornite saranno di tre ordini.
Il primo tipo di chiarificazioni riguarderà il concetto stesso di giuspositivismo e le sue possibili articolazioni sotto forma di concezioni. Mi sforzerò di individuare, a tale proposito, il contenuto concettuale minimale comune a tutte le concezioni del giuspositivismo, facendo anche vedere come siano proprio le differenti interpretazioni cui è sottoposto tale contenuto concettuale a dar vita alle varie concezioni. Non ci sarà nulla di particolarmente nuovo e sconvolgente nel merito delle tesi che esporrò a proposito della definizione concettuale di 'giuspositivismo'; l'aspetto di novità è semmai di carattere metodologico, in quanto è legato al tipo di collocazione (appunto, concettuale) che verrà attribuita alle tesi definitorie sul giuspositivismo.
Il secondo tipo di chiarificazioni riguarderà l'analisi comparativa dell'inclusive positivism (d'ora in poi, "ILP") e dell'exclusive positivism (d'ora in poi, "ELP"), considerate come concezioni del concetto di positivismo giuridico sopra menzionato. Da questo punto di vista, sosterrò che l'ILP (opportunamente rivisitato e rinforzato dal punto di vista epistemologico e teorico) è un programma di ricerca più promettente e fecondo rispetto all'ELP, anche perché riesce a render conto, in modo più adeguato e interessante, dei rapporti fra diritto e morale, per il modo in cui essi oggi si caratterizzano negli stati di diritto costituzionali dei paesi occidentali (che rappresentano il campo di riferimento privilegiato della mia analisi); più specificamente, è la particolare fluidità di tali rapporti che l'ILP sembra essere maggiormente in grado di spiegare.
Il terzo tipo di chiarificazioni riguarderà due fra gli aspetti di maggiore frizione fra inclusive legal positivism ed exclusive positivism: Il primo è quello relativo all'interpretazione da dare alla tesi - concettuale, appunto - della separazione fra diritto e morale, e, in particolare, agli argomenti con i quali l'ILP cerca di giustificare l'intromissione di contenuti morali all'interno delle procedure con cui giudici e giuristi accertano l'esistenza e il contenuto delle norme giuridiche facenti parte degli stati di diritto costituzionali. A tale proposito, sosterrò che la presenza di tali contenuti valutativi non implica necessariamente l'attribuzione di un carattere discrezionale (nel senso forte del termine) a tale tipo di operazioni. A queste ultime, al contrario, può essere legittimamente assegnata, a certe condizioni, una valenza oggettiva. Ma il tipo di oggettività che il teorico giuspositivista potrebbe opportunamente attribuire alle operazioni in questione non ha alcun bisogno di fondamenti epistemologici di tipo realistico (nel senso dell'"oggettivismo etico" o del "realismo morale"); il giuspositivista può tranquillamente accontentarsi, in linea con le più recenti acquisizioni dell'epistemologia contemporanea, di una oggettività più debole, di tipo procedurale, sul merito della quale dirò di più nel prosieguo del saggio.
Il secondo aspetto riguarda la questione della eventuale compromissione valutativa dell'attività del giurista giuspositivista e l'altra, con quella collegata, della sua collocazione (interna o esterna?) rispetto al sistema giuridico che è oggetto del suo studio. A tale proposito, sosterrò che buona parte dei giuspositivisti contemporanei (compresi anche quelli che si riconoscono nell'ILP) tendono erroneamente a mescolare le due distinzioni, come se in fondo si trattasse di una sola. In questo senso, la collocazione esterna viene fatta coincidere con un atteggiamento di tipo avalutativo, mentre quella interna viene fatta coincidere con un atteggiamento valutativo (un atteggiamento "impegnato" nei confronti delle norme). Mi preoccuperò di criticare questa impostazione, affermando, al contrario, che si tratta di due distinzioni diverse e non logicamente collegate fra di loro. La tesi che avanzerò, in positivo, è che, in primo luogo, il giurista giuspositivista deve, è vero, collocarsi all'esterno del sistema giuridico (adottando un punto di vista esterno moderato), senza accettare le norme giuridiche che sono oggetto della sua ricerca; ma anche che, in secondo luogo, nel caso in cui come oggetto della sua ricerca vi siano contenuti di tipo valutativo, il punto di vista esterno può legittimamente coniugarsi con un atteggiamento di carattere valutativo, esibito, però, con finalità puramente conoscitive. Questo tipo di impostazione, peraltro, si armonizza molto meglio, checché ne pensino gli altri inclusive legal positivista, con le altre tesi sostenute da questo orientamento sul piano metaetico e su quello metodologico.
Mi sembra opportuno, alla fine di questa introduzione, far notare come fra queste chiarificazioni vi sia un collegamento concettuale costante. Esse, a ben guardare, non sono il prodotto di osservazioni casuali, ma rappresentano invece, come si vedrà meglio in seguito, l'esito comune del tentativo di applicare all'analisi delle questioni sopra citate tutta una serie di premesse epistemologiche, semantiche e metateoriche che scaturiscono da quell'approccio alla conoscenza giuridica e al diritto che vado sviluppando da un po' di tempo a questa parte [6] sotto il nome di 'costruttivismo giuridico'. L'idea di fondo che mi muove è, in sostanza, che il progetto di ricerca giuspositivistico etichettabile come inclusive positivism si possa sviluppare in modo molto più fecondo e coerente se adotta premesse epistemologiche, semantiche e metateoriche di stampo costruttivistico.


2) Concetto e concezioni di giuspositivismo

Ho detto prima che l'ILP e l'ELP rappresentano due versioni del giuspositivismo, e in particolare del giuspositivismo di matrice hartiana. E' opportuno, adesso, specificare meglio questo discorso: queste due versioni rappresentano, più precisamente, due differenti concezioni di uno stesso concetto, per l'appunto il concetto di giuspositivismo.
Non è ovviamente possibile sviluppare in questa sede, nemmeno per sommi capi, un'analisi del significato di concetto e dei suoi rapporti con le concezioni che da esso possono eventualmente scaturire; rinvio, per questo, ad alcuni miei lavori precedenti[7] , all'interno dei quali non solo si trovano i rinvii bibliografici necessari per cogliere il contesto metateorico all'interno del quale si colloca la mia proposta, ma anche la enucleazione di un modello di definizione mirato proprio alla individuazione dei concetti (la definizione concettuale[8] ), modello che io stesso ho messo concretamente alla prova per tutta una serie di nozioni specifiche [9] . Basti qui dire, in accordo con la mia prospettiva, che, in primo luogo, la definizione concettuale è il tipo di definizione più adatto nei casi in cui si abbia a che fare con nozioni contestabili [10] , quantomeno per iniziare a rassodare il campo semantico del definiendum ; e che, in secondo luogo, l'obiettivo di tale definizione è proprio quello di individuare, ove ciò sia naturalmente possibile, un comune concetto dietro differenti concezioni.
L'ultima precisazione che mette conto di fare, sia pure in termini molto schematici, riguarda proprio il tipo di definizione che io adotto di 'concetto': in questo senso, si può qui ribadire una definizione che ho già fornito in un lavoro precedente, secondo la quale per 'concetto' deve intendersi <<il contenuto di tutte quelle credenze, di carattere sostanziale ovvero semantico, che sono - per larga parte implicitamente - presupposte, in modo assolutamente non problematico (si "fa affidamento" su di esse, si "tengono per certe"), dai membri di una comunità di riferimento, nel corso delle loro attività comuni>>[11] .
Orbene, non mi pare che possano esistere dubbi sul fatto che il giuspositivismo sia una nozione essenzialmente contestabile. Cercherò pertanto, in questo paragrafo, di proporre una definizione concettuale di giuspositivismo[12] , nella convinzione che si tratti di un punto di partenza assolutamente imprescindibile per delineare poi i contorni delle due concezioni che qui in particolare interessano, l'ILP e l'ELP.
Molte sono le ragioni che potrebbero essere addotte a favore della proposizione di una definizione concettuale unitaria di giuspositivismo. Mi limiterò, in questa sede, ad esporne molto brevemente due che mi sembrano particolarmente rilevanti per gli scopi della mia indagine.
Una prima ragione è legata al fatto che una definizione concettuale unitaria è in grado di render contestualmente conto, in modo più adeguato che altri tipi di impostazione, sia degli elementi unitari (a livello del concetto, appunto), sia degli - altrettanto importanti - elementi di differenziazione (a livello delle concezioni) che sono presenti nelle concezioni giuspositivistiche. In assenza di una definizione unitaria, insomma, si corre il rischio di non riuscire a spiegare in modo adeguato la confluenza contestuale, nelle teorie giuspositivistiche, di elementi di continuità e di elementi di differenziazione, finendo fatalmente per sacrificare l'uno o l'altro dei due aspetti.
La seconda ragione riguarda il livello all'interno del quale sono collocati questi elementi unitari, che è, come ho già detto, il livello concettuale. La definizione concettuale, per il fatto di inserire gli elementi di unità al livello del concetto, consente di capire meglio come, a partire da una base pre-teorica di aspetti condivisi, possano poi intervenire mano a mano gli elementi di differenziazione, che riguardano innanzitutto il piano delle concezioni e poi, più specificamente, quello delle teorie. Questi ultimi due tipi di elementi possono essere considerati, muovendo da questa prospettiva, come l'esito di differenti interpretazioni dello stesso concetto.
Cercherò adesso di fornire, molto brevemente, una definizione concettuale di giuspositivismo. Mette appena conto di notare che proporre una definizione unitaria di giuspositivismo significa dissentire radicalmente con coloro i quali sono invece convinti che il progetto di fornire una siffatta definizione debba essere abbandonato, in quanto ormai improponibile [13] , se non addirittura controproducente, per l'ambiguità ineliminabile della nozione [14] ; ma anche con coloro i quali ritengono che una definizione di giuspositivismo sia invece opportuna, ma che valga a denotare cose (teorie, credenze, atteggiamenti), molto diverse tra loro, fra le quali non si può stabilire alcun tipo di collegamento, se non di carattere storico [15] .
La definizione che propongo del giuspositivismo consta di due tesi, che, anche se non sono fra loro logicamente collegate, esprimono tuttavia congiuntamente il nucleo concettuale del giuspositivismo, il suo contenuto concettuale minimale condiviso da tutte le concezioni qualificabili come tali. La prima verrà etichettata come una tesi sul diritto (e dunque, in un certo senso, una tesi ontologica), la seconda come una tesi sulla conoscenza del diritto (e dunque una tesi metodologica)[16] .
Secondo la prima tesi, <<tutti i fenomeni (in primo luogo, le regole) cui conviene l'appellativo di 'diritto' costituiscono invariabilmente istanze di diritto positivo, e dunque di un diritto che rappresenta il prodotto normativo (e qui ovviamente la potenzialmente elusiva proprietà della normatività è tutta da specificare da parte delle varie concezioni), di tipo convenzionale (in un senso da precisare ulteriormente), di decisioni e/o di comportamenti umani storicamente contingenti dal punto di vista culturale, e quindi, più in particolare, dal punto di vista etico-politico>>.
In accordo con la seconda tesi, <<"render conto" (espressione che preferisco senz'altro a "descrivere") del diritto positivo è, per lo studioso del diritto, attività completamente diversa, e da tenere nettamente separata, rispetto a quella che si concreta in una presa di posizione (positiva o negativa, di accettazione o di rifiuto, eccetera) nei confronti del diritto stesso>>[17] .
Si impongono, adesso, alcune chiarificazioni sulle due tesi appena enunciate. Comincerò con alcune osservazioni sulla prima tesi.
1) Il primo tipo di osservazioni riguarda l'attributo 'convenzionale' che viene predicato del diritto in quanto prodotto di decisioni e di comportamenti. Non voglio qui entrare nel merito delle odierne discussioni, molto sofisticate, sui vari possibili modi sia di intendere il convenzionalismo, che di utilizzarlo nella costruzione delle teorie giuspositivistiche. Uso qui la locuzione in termini volutamente generici, nel senso in cui "convenzionale" può essere contrapposto, in qualche senso, a "naturale". Intesa in questo modo, tale locuzione mira a sottolineare la opposizione concettuale che esiste, nell'ottica di questa prima tesi, fra giuspositivismo e giusnaturalismo (o quantomeno con alcune forme di giusnaturalismo), e proprio nel senso che il giuspositivismo nega - mentre il giusnaturalismo invece afferma - una connessione essenziale fra diritto e natura che porta a postulare dei contenuti normativi necessari, di tipo trans-culturale, all'interno del diritto positivo. Visto in questa luce, il giuspositivismo si caratterizza allora come una posizione squisitamente convenzionalistica [18] , nel senso generico qui adottato; e questo vale anche se si ammette comunque - come penso che anche un giuspositivista dovrebbe - una sorta di "radicamento del diritto nella natura", legato al fatto che, sulla base di alcune caratteristiche fondamentali degli esseri umani (caratteristiche che sono, è vero, contingenti, ma anche talmente stabili da poter svolgere il ruolo, in un certo senso trascendentale, di "condizioni concettuali di possibilità del diritto"[19] ), il diritto stesso svolga necessariamente, in quanto tale, una funzione di regolamentazione e di ordinamento della condotta umana, e dunque sia "naturalmente" portato a realizzare, indipendentemente dai suoi contenuti specifici, degli obiettivi di coordinamento e di pacificazione della vita sociale che lo caricano inevitabilmente, anche se in senso molto minimale, di determinati contenuti.
Qui la discussione ci porterebbe molto lontano, verso territori che non è certamente compito di questo saggio esplorare. Mi limito a dire, per ciò che può maggiormente rilevare ai fini del mio lavoro, che (come già aveva opportunamente notato Hart nella sua famosa analisi sul contenuto minimo di diritto naturale[20] ascrivibile al diritto positivo) l'ammissione dell'esistenza di tali contenuti "necessari" non mette affatto in pericolo la coerenza di una posizione giuspositivistica, per la semplice ragione che quei contenuti sono in realtà molto generici (dei veri e propri truismi, come quello secondo cui il diritto assicura la "protezione dalla violenza"), e come tali concretamente specificabili in modi molto diversi in contesti socio-politici differenti, modi che non necessariamente si presentano come moralmente benigni. Come dice opportunamente Kramer, può benissimo accadere che un certo diritto positivo raggiunga i suoi fini "naturali", concernenti la preservazione dell'ordine e il coordinamento delle azioni sociali all'interno del suo territorio, portandoli però a compimento attraverso la realizzazione di un sistema di assoluta e totale oppressione nei confronti dei consociati, meritevole come tale della più radicale condanna morale [21] .
Il secondo tipo di osservazioni sulla tesi ontologica riguarda la cosiddetta separation thesis, per la quale si può fornire la seguente formulazione: <<non è in alcun senso concettualmente necessario che il diritto positivo rispecchi determinati contenuti o esigenze di carattere morale>>[22] . Anche per questa tesi sono opportuni alcuni chiarimenti.
In primo luogo, va innanzitutto precisato che, dal punto di vista della definizione concettuale qui adottata, la separability thesis non è un postulato o un assioma fondamentale del giuspositivismo, come da molti si va ripetendo[23] , ma, più correttamente, un corollario che scaturisce dalla prima tesi concettuale sopra menzionata. Se si accetta, infatti, la tesi secondo cui tutto il diritto positivo è frutto di decisioni contingenti, allora bisogna anche accettare, come sua necessaria implicazione, quella secondo cui non vi può essere alcun contenuto giuridico necessario (fatto salvo quanto detto sopra sui truismi che costituiscono il contenuto minimo del diritto naturale), e dunque a fortiori alcun contenuto etico, che debba per forza far parte del diritto positivo stesso.
Una seconda considerazione va soltanto accennata, tanto è ovvia e scontata: la tesi sopra enunciata parla, appunto, di separabilità, e non di separazione fra diritto e morale[24] , e dunque fa salvi tutti i numerosi e complessi tipi di rapporto che normalmente si danno fra diritto e morale, a maggior ragione negli stati di diritto costituzionali. Ma su questo aspetto credo che si possa tranquillamente sorvolare, anche perché non vedo francamente come su di esso possa sorgere alcun tipo di dissenso.
In terzo luogo, va notato che la separation thesis è, per l'appunto, una tesi ontologica, e non già metodologica, come è invece la seconda tesi concettuale del giuspositivismo, sulla quale tornerò fra poco. Le due tesi non sono fra loro collegate, sia dal punto di vista logico che concettuale. Avevo già notato sopra, peraltro, come fra tesi ontologica e tesi metodologica non vi fossero questi tipi di collegamento; e questo vale anche, naturalmente, per la separation thesis, come corollario della tesi ontologica. E' perfettamente possibile, dunque, sostenere che ai rapporti fra diritto e morale si applica la separation thesis, e ammettere contestualmente che la descrizione del diritto è inseparabile dalla sua accettazione; ma anche, viceversa, che diritto e morale sono concettualmente interconnessi, ma che la descrizione del diritto deve prescindere dall'accettazione dei suoi contenuti morali.
In quarto luogo, come sarà molto più chiaro fra breve, la separation thesis, proprio in quanto tesi concettuale, è strutturalmente indeterminata, aperta dunque a differenti interpretazioni; di fatto più interpretazioni di questa assunzione sono state date nella storia del giuspositivismo. Questo vale in particolare per la storia più recente di questo orientamento, a proposito delle diverse interpretazioni fornite dall'ILP e dall'ELP.
2) E' arrivato il momento, adesso, di fare alcune osservazioni sulla seconda tesi concettuale del giuspositivismo, quella metodologica.
In primo luogo, come mi sembra pacifico, questa tesi ha costituito una delle affermazioni centrali del giuspositivismo moderno, sin dalle sue prime formulazioni[25] . Anche oggi essa continua a mantenere questo ruolo centrale, anche se non sempre viene adeguatamente chiarito il tipo di collocazione che ad essa viene riservato all'interno dello schema concettuale del giuspositivismo. Nelle formulazioni più recenti si tende sovente ad usare, con riferimento ad essa, l'appellativo di 'giuspositivismo metodologico'[26] . In ogni caso, ben raramente si coglie con la dovuta chiarezza la valenza concettuale che invece a mio avviso va ad essa attribuita.
In secondo luogo, mi pare importante rilevare come questa tesi non sia per nulla identica, come cercherò di mostrare in seguito, a quella che prescrive agli studiosi del diritto di assumere, nell'ambito della loro attività "descrittive", un atteggiamento avalutativo. Non mi interessa, per adesso, criticare questa tesi della avalutatività, che la maggior parte dei teorici giuspositivisti considera, a mio avviso erroneamente, come una caratteristica essenziale di questo orientamento. Qui mi limito a dire che si tratta di due tesi diverse, fra le quali non vi è alcun collegamento concettuale necessario. In realtà, sostenere che la descrizione di un determinato diritto positivo richiede l'assunzione di un atteggiamento avalutativo vuol dire compiere un passaggio ulteriore, e cioè interpretare una assunzione concettuale, sviluppare una concezione a partire da un elemento di carattere concettuale. In buona sostanza, l'operazione che si compie è questa: si interpreta l'attività di descrizione del diritto positivo come una attività di carattere avalutativo, attraverso un passaggio che non è per nulla scontato, né tampoco logicamente determinato, ma che, al contrario, potrebbe anche produrre esiti completamente diversi (come accade, del resto, nel caso della mia prospettiva).
Giunti alla fine di questo paragrafo, è opportuno ribadire che la definizione che ho proposto non è per nulla nuova [27] , né, peraltro, contiene alcunché di particolarmente sconvolgente per un fedele sostenitore del giuspositivismo. L'elemento di novità, lo ripeto ancora, è costituito dal fatto che l'attività definitoria si colloca a livello concettuale [28] ; e tuttavia questo è sufficiente, come spero di aver mostrato, per eliminare alcuni gravi fraintendimenti che sorgono quando gli elementi che formano la base concettuale condivisa e gli elementi che sono l'esito della propria prospettiva teorica vengono inestricabilmente mescolati.


3) L'inclusive e l'exclusive positivism come concezioni del giuspositivismo.

Mi occuperò adesso più specificamente dell'ILP, e del modo in cui esso si contrappone all'ELP. Coerentemente con l'impostazione scelta sin dall'inizio, questi due orientamenti saranno considerati come due possibili concezioni del concetto di giuspositivismo, due interpretazioni contestabili di quella comune base concettuale.
Sono convinto che l'unico elemento che vale a contrassegnare, in modo stabile e costante, la contrapposizione fra ILP e ELP è quello legato alla differente interpretazione che queste due concezioni forniscono della separability thesis. La distinzione fra questi due orientamenti, pertanto, riguarda essenzialmente il livello ontologico delle tesi sul diritto. Mi sembra, invece, che altri elementi di differenziazione, che talvolta vengono aggiunti a quello sopra menzionato, abbiano natura affatto contingente e che quindi non servano ad individuare correttamente il nucleo fondamentale di quella contrapposizione. Vi è, ad esempio, chi, come Moreso, proietta tale contrapposizione anche a livello metodologico, aggiungendo così all'elemento della differente interpretazione della separability thesis anche quello legato al diverso modo in cui le due concezioni intendono la portata della discrezionalità giudiziale nei casi in cui i giudici facciano ricorso ad argomenti morali. Da questo punto di vista, allora, l'ELP sosterrebbe che, nei casi in cui i giudici facciano riferimento alla moralità o adottino argomenti morali nel risolvere le controversie, essi avrebbero sempre discrezionalità (in un senso forte); mentre invece l'ILP sosterrebbe che, quantomeno in alcuni di questi casi, essi non ce l'avrebbero affatto[29] .
Si può senz'altro ammettere che il differente modo di configurare la discrezionalità giudiziale, con riferimento all'uso di argomenti morali, molto spesso costituisca per davvero un elemento di discriminazione fra le due concezioni; a me pare, tuttavia, che ciò accada in modo soltanto contingente. Stando alla definizione concettuale sopra formulata, e all'assenza di un collegamento concettuale fra tesi ontologica e tesi metodologica in essa implicata, potrebbe benissimo ipotizzarsi che un sostenitore dell'ILP accetti che argomenti morali intervengano nell'attività di determinazione dell'esistenza e del contenuto del diritto, ma che conceda tuttavia che, ove ciò accada, tale attività abbia natura esclusivamente discrezionale; o, viceversa, che un sostenitore dell'ELP sostenga che argomenti morali non entrino in tali attività e che i giudici, tuttavia, godano in ogni caso di un grado elevato di discrezionalità nell'ambito del loro lavoro interpretativo.
A me sembra, pertanto, che l'aspetto fondamentale, il nucleo imprescindibile della contrapposizione fra ILP e ELP sia quello legato alla differente interpretazione della separability thesis. In questo senso, ripercorrendo la strada opportunamente tracciata da Waluchow, proverò adesso a proporre due definizioni, rispettivamente, dell'ILP e dell'ELP. Nel fare ciò seguirò lo schema usuale (che, ad esempio, Waluchow e Raz seguono), che individua nei giudici i soggetti privilegiati cui guardare per cogliere le eventuali implicazioni morali delle operazioni di accertamento dell'esistenza e dei contenuti delle norme. A mio avviso, tuttavia, il discorso dovrebbe opportunamente allargarsi e riguardare pure l'operato degli studiosi del diritto (espressione che include sia i teorici del diritto che i giuristi).
Secondo l'ILP, criteri di natura etica possono benissimo figurare nell'attività volta ad accertare l'esistenza e il contenuto delle norme di un sistema giuridico, nei limiti, però, in cui la norma di riconoscimento del sistema giuridico in questione permetta, direttamente o indirettamente, il riferimento a tali criteri[30] . Una situazione del genere verrebbe a verificarsi, ad esempio, nel caso in cui vi fosse, in un determinato sistema giuridico, una disposizione costituzionale che prevedesse l'annullamento (in modi e forme che qui non interessano) delle disposizioni legislative che imponessero sanzioni qualificabili, in qualche senso, come crudeli. E' di tutta evidenza che in questo caso la validità o meno di tale norma dipenderebbe dal modo di configurare la nozione etica di crudeltà[31] .
Secondo l'ELP, invece, i tests per identificare l'esistenza e il contenuto delle norme giuridiche dipendono esclusivamente da fatti del comportamento suscettibili di essere descritti in termini neutrali, e di essere applicati senza ricorso ad argomenti morali[32] . Ciò vuol dire che ogni riferimento alla moralità politica, da parte dei giudici, non può essere considerato come un riferimento a un diritto preesistente; in questi casi, in realtà, i giudici si comporterebbero da legislatori, creerebbero nuovo diritto[33] .
Raccogliendo un suggerimento di Coleman[34] , si può cogliere in modo più chiaro la differenza fra queste due interpretazioni rappresentandola attraverso la distinzione intercorrente, in logica modale, fra negazione interna e negazione esterna. Si potrebbe allora dire che l'ELP, in accordo con la modalità della negazione interna, sostiene la tesi che per tutti i sistemi giuridici è necessario che, ad esempio, la validità di una norma non dipenda dalla rispondenza a criteri di natura etica; e che invece l'ILP, in accordo con la modalità della negazione esterna, sostiene la tesi che non è necessario che in ogni sistema giuridico la validità di una norma dipenda dalla sua rispondenza a tali criteri[35] . In sostanza, per l'ILP è possibile concepire almeno una norma di riconoscimento (e dunque un sistema giuridico) che non specifichi la rispondenza a principi morali fra le condizioni di validità delle singole norme. Il fatto che poi in un determinato sistema giuridico le cose vadano altrimenti, per alcune o per tutte le norme giuridiche, non viola per nulla, come è del tutto ovvio, la separability thesis[36] .
Mi sembra importante, adesso, fare alcune brevi osservazioni sulla definizione che ho fornito dell'ILP. Un primo punto da notare è che la definizione stabilisce un possibile collegamento, nell'ambito delle attività di giudici e studiosi del diritto aventi a che fare con norme, fra l'attività volta a determinarne l'esistenza (nel senso della validità) e quella volta a determinarne il contenuto. Non si tratta, è bene chiarire, di un collegamento necessario; esso riguarda in modo particolare il contesto istituzionale rappresentato dagli stati di diritto costituzionali contemporanei, che costituiscono, peraltro, il campo di riferimento privilegiato per le ricostruzioni esplicative fornite dall'ILP. Ebbene, come ha messo bene in luce Ferrajoli[37] , le norme[38] dei moderni stati di diritto costituzionali - e segnatamente quelle di produzione legislativa - non sono sottoposte soltanto a vincoli di tipo formale, ma anche a vincoli di tipo sostanziale; e questi ultimi comportano l'entrata in funzione, perlomeno a livello potenziale, di un test ulteriore rispetto a quello che consiste nell'accertamento della correttezza formale dell'atto produttivo di norme: si tratta, per l'esattezza, del test che consiste nell'apprezzamento della conformità del contenuto di significato di queste norme rispetto a quello di norme di grado superiore, e segnatamente delle norme costituzionali; e queste ultime sono norme che molto spesso hanno contenuti di carattere morale.
Questo tipo di analisi ha delle importanti ricadute sul terreno della nozione di validità, perché pone le premesse per sostenere che, all'interno di queste organizzazioni giuridiche, una norma non potrà dirsi pienamente valida soltanto sulla base del test consistente nell'accertamento del suo pedigree formale (accertamento che, per Ferrajoli, si limita ad attestarne il vigore); essa deve pure superare un - o quantomeno è sempre potenzialmente suscettibile ad essere sottoposta ad un - ulteriore test che comporta un esame del suo contenuto (test che, sempre per Ferrajoli, consente eventualmente di predicare la validità in senso pieno della norma stessa).
Quanto or ora detto vale a spiegare perché, secondo l'ILP, non sempre è possibile separare l'accertamento dell'esistenza e l'accertamento del contenuto delle norme[39] . In particolare, nelle organizzazioni giuridiche dotate di un livello di norme a carattere costituzionale, accade sovente che l'individuazione dell'esistenza giuridica di una norma debba passare attraverso l'interpretazione del suo contenuto.
Su questa nozione "allargata" di validità dovrò comunque tornare fra poco, in primo luogo perché essa lascia intravedere, sullo sfondo, una concezione della positività del diritto che è molto più feconda e interessante di quella fatta propria dal giuspositivismo più tradizionale, e che, oltretutto, si armonizza molto meglio con il programma di ricerca condotto dall'ILP, piuttosto che con quello condotto dall'ELP; in secondo luogo perché, a ben guardare, tale nozione contribuisce a mettere in questione una tesi di importanza fondamentale per l'ELP: quella, per l'esattezza, che distingue nettamente fra teoria del diritto e teoria dell'interpretazione-applicazione del diritto, scaricando -a mio avviso impropriamente- su quest'ultima tutto il peso di spiegare la presenza di contenuti morali all'interno del diritto.
Un secondo punto da notare a proposito della definizione dell'ILP da me proposta riguarda il fatto che in essa si parla, in relazione alla possibilità che la norma di riconoscimento faccia riferimento a criteri di natura etica, di riferimento diretto e di riferimento indiretto. In che senso? Ebbene, il riferimento diretto si ha quando la norma di riconoscimento annovera espressamente criteri di questo tipo fra quelli che determinano le condizioni di validità di una norma. Il riferimento indiretto, invece, si ha quando criteri etici vengono usati per individuare (norme esplicite) o per costruire (norme implicite) norme (che in questo caso appartengono prevalentemente alla classe dei principi) che hanno una relazione soltanto indiretta con la norma di riconoscimento. Con la locuzione 'relazione indiretta' si vuole indicare la situazione in cui l'accertamento dell'esistenza di tali norme non dipende dal fatto che operatori e studiosi si richiamino a tal fine ad una fonte espressamente riconosciuta dalla norma di riconoscimento, ma, piuttosto, dal fatto che essi invochino questi principi come elementi di razionalizzazione di norme formalmente valide (e dunque in raccordo diretto con la norma di riconoscimento), o comunque come elementi che costituiscono una integrazione o estensione del sistema giuridico, integrazione che, qualora si sviluppi in piena coerenza e/o armonia con i contenuti di altre norme formalmente valide, non è per nulla discrezionale, né tanto meno arbitraria [40] .
Anche su questo punto tornerò di nuovo fra poco, perché esso, se opportunamente sviluppato, può consentire alcuni ulteriori e fecondi sviluppi al programma di ricerca dell'ILP. Il punto in questione, infatti, tira opportunamente in ballo la questione della natura e dei compiti della interpretazione, vista come attività in grado, a determinate condizioni (da specificare ovviamente), di garantire un certo qual grado di oggettività alle modalità con le quali dei contenuti morali possono legittimamente penetrare nel diritto, senza peraltro produrre alcuno strappo con le tesi fondamentali del giuspositivismo.
Credo sia opportuno, adesso, chiarire brevemente le ragioni per cui ritengo, come ho detto all'inizio, che il programma di ricerca dell'ILP (opportunamente rivisitato) sia molto più promettente e fecondo di quello dell'ELP. In questa sede mi limiterò a fornirne due: la prima concerne il maggiore potenziale esplicativo della prima concezione, la seconda la sua maggiore "attrattività" dal punto di vista teorico.
1) Per quanto riguarda la prima ragione, il punto fondamentale da mettere in luce è che l'ILP ha maggiori risorse teoriche per spiegare, all'interno di un programma di ricerca che mantiene pur sempre la sua aderenza al giuspositivismo, quella sorta di "mutamento di paradigma" degli stati di diritto contemporanei[41] che si è prodotto con l'avvento delle costituzioni, e in particolar modo di quelle rigide[42] . Ci sarebbe senza dubbio molto da dire a proposito di questa complessa trasformazione, ma non è certo questa la sede per farlo. Mi limito a ribadire ulteriormente, per quello che qui più interessa, un'affermazione che ho già fatto sopra, e che peraltro nessuno studioso del diritto si sognerebbe oggi di mettere in questione: le norme costituzionali dei nostri stati di diritto contemporanei pongono non soltanto dei vincoli di carattere procedurale alla produzione normativa sottostante, ma anche dei vincoli di carattere sostanziale. Questi ultimi sono vincoli che derivano da principi che per larga parte hanno un contenuto squisitamente morale; basti pensare agli svariati principi delle nostre carte costituzionali che riconoscono diritti fondamentali (sia nella forma di diritti di libertà che nella forma di diritti sociali).
Ebbene, in un contesto di questo tipo, l'ILP ha il grande pregio di riconoscere pienamente il contenuto morale di tali vincoli, mantenendo fermamente, tuttavia, una scelta di campo giuspositivistica, e dunque predisponendo una versione allargata della norma di riconoscimento, in modo tale da consentire l'inclusione, al suo interno, di criteri di natura etica (cosa che, peraltro, aveva già fatto lo stesso Hart [43] ).
Eppure, sempre con riguardo alla questione del rapporto fra diritto e morale, se per davvero le risorse esplicative in dotazione all'ILP si condensassero soltanto in questo tipo di affermazioni, credo proprio che non ci sarebbe da essere soddisfatti, anche perché non si sarebbe con ciò riusciti a chiudere definitivamente a proprio vantaggio la partita con l'ELP. Anche quest'ultimo, infatti, potrebbe vantarsi, forse a buon diritto, di possedere le risorse teoriche sufficienti per incorporare all'interno del giuspositivismo le novità introdotte dagli stati di diritto costituzionali. L'ELP, insomma, potrebbe anch'esso render conto abbastanza tranquillamente del fatto che i vincoli posti dalle norme costituzionali attengono anche ai contenuti delle leggi, e potrebbe inoltre cercare di spiegare la presenza, in tali norme, di contenuti morali in un modo radicalmente differente rispetto a quello suggerito dall'ILP. Più precisamente, esso potrebbe porre una sorta di alternativa: o i contenuti morali sono "interni" al diritto di una data organizzazione giuridica, nella misura in cui fanno parte di principi che sono, appunto, a pieno titolo giuridici (perché formalmente validi), e dunque rappresentano contenuti di diritto positivo né più né meno come i contenuti di tutte le altre norme formalmente valide, e allora il fatto che essi abbiano carattere morale perde completamente ogni rilevanza; ovvero tali contenuti sono in partenza "esterni" rispetto al diritto positivo in questione, e allora l'operazione, posta in essere dai giudici, che li trasforma in contenuti giuridici è un'operazione interpretativa a carattere discrezionale, che equivale alla "creazione di nuovo diritto", e che quindi, come tale, non ha nulla a che vedere con l'operazione che mira all'accertamento di un diritto preesistente. Ciò che preesiste all'attività giudiziale, sempre secondo la strategia di risposta dell'ELP, sono semmai le norme che, in qualche senso, "autorizzano" il giudice a trovare la base della sua decisione in una fonte esterna al diritto positivo.
Io credo che sarebbe un errore sottovalutare questo tipo di risposta, che presenta un sufficiente grado di coerenza interna e di potenziale esplicativo. Per riuscire a metterla per davvero in questione, bisognerebbe mostrare, sul piano di un'analisi comparativa, che essa è meno feconda e interessante di altre (o di un'altra), perché, ad esempio, è costretta ad introdurre ipotesi ad hoc, ovvero perché lascia alcuni punti o alcune questioni non spiegate in modo esauriente.
Orbene, da questo punto di vista sono convinto che c'è un aspetto dei rapporti fra diritto e morale, per come si configurano negli stati di diritto costituzionali, del quale l'ELP non riesce a fornire una analisi adeguata, ed è quello relativo all'estrema fluidità che caratterizza tali rapporti. Con ciò voglio dire che in molti dei casi in cui giudici e studiosi del diritto fanno riferimento a contenuti morali, nell'interpretare disposizioni giuridiche preesistenti (soprattutto di carattere costituzionale) o nel costruire norme implicite, è molto difficile qualificare tali contenuti, una volta per tutte e in modo indipendente dalla pratica interpretativa che li ha portati alla luce, come del tutto "interni" ovvero come del tutto "esterni" al diritto positivo.
Mi pare importante, adesso, cercare di chiarire meglio, sia pure molto brevemente, le ragioni delle "difficoltà di collocazione" in cui versano questi contenuti morali. Lo farò facendo specifico riferimento alle disposizioni costituzionali, in relazione alle quali tale situazione si manifesta con particolare nettezza [44] , anche se il mio discorso potrebbe benissimo essere esteso a tutto l'ambito delle disposizioni legislative.
In primo luogo, è importante rilevare che il contenuto di molte delle disposizioni costituzionali che fanno riferimento a valori morali è di carattere molto generale, talvolta anche generico, quando non è - più o meno volutamente - ambiguo[45] . Pertanto, render conto del contenuto semantico di queste disposizioni vuol dire in ogni caso effettuare delle scelte interpretative che privilegino - non necessariamente in modo arbitrario - uno dei possibili significati che tali enunciati possono sopportare; e fare ciò vuol dire anche entrare nel merito della questione del possibile significato da attribuire a nozioni essentially contested come 'libertà', 'eguaglianza' 'democrazia', eccetera. Tali disposizioni, inoltre, non si presentano mai da sole in un testo costituzionale, ma insieme a molte altre, in una rete molto intricata di enunciati fra loro strettamente interrelati. Una delle conseguenze della natura reticolare di queste disposizioni è che la loro interpretazione non è molto spesso in grado di rinvenire un ordine gerarchico precostituito, in grado di determinare, una volta per tutte, quali sono i principi più importanti, e sotto quale interpretazione del loro contenuto. Ciò accade -perlomeno- per due ragioni fondamentali, una di carattere teorico-linguistico, l'altra di carattere filosofico-politico: i) con la prima si vuole mettere in evidenza, come ho già detto prima, che il contenuto di questi principi è vago, generico, talvolta ambiguo, e non consente di rintracciare un ordine preesistente ; ii) con la seconda si rileva che, in ogni caso, il carattere pluralistico dei valori presenti all'interno delle nostre carte costituzionali preclude la preventiva codificazione di un ordine gerarchico fisso e immutabile
Questo tipo di lavoro interpretativo "costruttivo" della dottrina e della giurisprudenza costituzionali non può essere in alcun modo equiparato ad una fantomatica "descrizione di significati preesistenti"; ma nemmeno, quantomeno nella maggior parte dei casi, alla "creazione dal nulla di nuovo diritto". Questa affermazione, si badi bene, vale anche per i casi in cui il lavoro interpretativo in questione porta alla enucleazione sia di principi impliciti (quale ad esempio è, all'interno del nostro sistema giuridico, il principio della "legalità nella amministrazione"), che di principi che sono totalmente inespressi (quale è, ad esempio, sempre facendo riferimento al nostro sistema giuridico, quello della "divisione dei poteri"), e che sono dunque frutto di una integrazione del diritto positivo [46] . Insomma, in tutti i casi in cui dottrina e giurisprudenza producono innovazioni normative che si inseriscono nel solco del "diritto preesistente" (naturalmente, per come esso risulta complessivamente dalla migliore interpretazione che se ne può fornire), il risultato della loro attività è l'individuazione di principi che sono, in qualche senso, latenti, perché, ad esempio, esprimono ragioni o scopi impliciti di singole norme o di gruppi di norme esplicite; oppure la costruzione di nuovi principi, i quali costituiscono comunque delle integrazioni, dei tentativi di colmare delle lacune normative che vengono posti in essere nel pieno rispetto dei criteri di coerenza e di congruenza rispetto al contenuto (così come è stato già interpretato) dei principi espliciti disponibili e rilevanti per il caso o la serie di casi oggetto di discussione[47] .
Ebbene, tale tipo di considerazioni vale allo stesso modo per tutti i casi in cui questo complesso lavoro di interpretazione e di integrazione del diritto positivo ha che fare con contenuti morali. Ma sostenere ciò vuole anche dire, a ben guardare, mettere radicalmente in questione l'idea secondo cui, in tale tipo di operazioni, questi contenuti possano essere sbrigativamente etichettati, una volta per tutte, come "interni" o "esterni" rispetto al diritto positivo. In questi casi, in realtà, giudici e studiosi trapassano continuamente "dall'esterno verso l'interno", e viceversa: per interpretare contenuti valutativi già presenti - in qualche senso - nel diritto positivo, per portare alla luce quelli impliciti e per costruirne di nuovi, essi hanno altrettanto bisogno di far leva su materiali preesistenti (i contenuti morali di principi espliciti, nella migliore interpretazione disponibile), quanto di far riferimento a quelle concezioni -"esterne"- di quei valori morali che servono ad orientare al meglio i processi di interpretazione e di costruzione dei contenuti morali in questione[48] .
Su questi complessi processi di carattere interpretativo, e sulle risorse che la teoria dell'interpretazione deve mettere in campo per darne una spiegazione adeguata, dirò qualcosa di più nel prosieguo del lavoro. Qui mi pare importante tirare le conclusioni di queste osservazioni per quanto concerne la valutazione comparativa delle potenzialità esplicative dell'ELP e dell'ILP. Quello che voglio dire è che l'ILP (sia pure opportunamente rivisitato e rinforzato dal punto di vista epistemologico e teorico) mi sembra molto più attrezzato per rendere adeguatamente conto di tutti questi fenomeni di "inclusione" della morale all'interno del diritto.
Vi è, tuttavia, un ulteriore argomento che l'ELP può a questo punto mettere in campo, per tentare di rivaleggiare, ad un livello teorico più elevato, con le capacità esplicative dell'ILP, e dunque per render anch'esso conto della fluidità dei rapporti fra diritto e morale negli stati di diritto costituzionali. Su questo argomento conviene adesso soffermarsi brevemente.
L'argomento in questione si impernia su di una distinzione che dovrebbe servire, secondo le intenzioni dell'ELP, a mettere al riparo la teoria del diritto da compromissioni di carattere valutativo. A questo scopo, alcuni esponenti dell'ELP si sforzano di tracciare una netta linea di demarcazione fra due discipline giuridiche che vengono considerate come radicalmente differenti: da una parte, la teoria del diritto, il cui compito sarebbe quello di identificare il diritto e descriverne il contenuto; dall'altra parte la teoria dell'applicazione del diritto, il cui compito sarebbe quello di render conto di tutte le considerazioni - anche morali, dunque - che influenzano i ragionamenti delle corti, e quindi di tutto ciò che costituisce la base delle loro decisioni[49] . Una distinzione del genere, qualora si rivelasse fondata, dovrebbe riuscire a realizzare l'obiettivo di "sterilizzare" la teoria del diritto, liberandola dal peso delle compromissioni etico-valutative, che graverebbero soltanto sulla teoria dell'applicazione del diritto.
Molte critiche potrebbero essere mosse nei confronti di questa distinzione. Si potrebbe ad esempio rilevare che non è molto chiaro quale sarebbe, al suo interno, la collocazione dell'interpretazione giuridica, che è un'attività che sembra fare integralmente parte di entrambi i settori disciplinari in questione. Si potrebbe dire che, in fondo, per determinare il contenuto del diritto, bisogna interpretarlo; e lo stesso bisogna fare prima di applicarlo! Ad uno sguardo più attento, in realtà, la mossa adottata dall'ELP sembra essere più frutto di una ipotesi ad hoc, piuttosto che di una ipotesi avente un potenziale esplicativo indipendente rispetto allo scopo di salvare la teoria dalle potenziale confutazioni. Ma, anche prescindendo da ciò, la critica principale che si può muovere, per quello che più qui interessa in questa sede, è che questa mossa si presenta, nella migliore delle ipotesi, come il frutto non separabile di una concezione che poggia su premesse epistemologiche e teoriche che oggi appaiono palesemente inadeguate.
B) Come si può vedere, siamo con ciò passati a discutere la seconda ragione che milita a favore della preferibilità del programma di ricerca dell'ILP, ragione cui sopra avevo attribuito carattere squisitamente teorico. La discussione di questo punto, tuttavia, non potrà che essere forzatamente molto breve e schematica, vista la complessità e l'ampiezza delle questioni da trattare[50] .Mi limito qui a rilevare che l'idea secondo cui è possibile demarcare nettamente la teoria del diritto dalla teoria dell'applicazione del diritto si basa, innanzitutto, su alcune premesse teoriche, di carattere oggettualistico[51] , secondo le quali il diritto si presenta come un dato (fatto o norma che sia) che ha una esistenza autonoma rispetto alle - e che come tale può essere oggettivamente accertato e descritto indipendentemente dalle - pratiche conoscitive, interpretative, applicative che poi intervengono necessariamente su di esso per gli scopi più vari (per renderne conto in sede dottrinale, per usarlo come guida della condotta nella "vita di tutti i giorni", per adottarlo come criterio di soluzione di casi concreti nell'attività giudiziale, e così via).
Questa cornice teorica si basa, a sua volta, su alcune premesse di carattere semantico (a carattere descrittivistico), e, ancora più in profondità, su alcune premesse epistemologiche (di carattere realistico). In accordo con il primo tipo di premesse, la categoria semantica centrale, quella attorno alla quale ruotano tutte le altre (ad esempio quella del "linguaggio valutativo"), è rappresentata dal linguaggio "descrittivo", quel linguaggio che ha lo scopo di "rappresentare oggettivamente", di "rispecchiare fedelmente" i dati (di qualunque tipo essi siano) cui di volta in volta si fa riferimento. In accordo con le premesse epistemologiche (di tipo realistico), questi dati che sono oggetto di descrizione si collocano in una dimensione della realtà (di qualunque tipo di "realtà" si tratti) che è autonoma e indipendente rispetto alle modalità di descrizione utilizzate.
Purtroppo non posso soffermarmi ulteriormente, perlomeno in questa sede, su temi così complessi e delicati. Sta di fatto che sono proprio queste, a mio avviso, le premesse su cui fa leva l'ILP, come del resto tutti coloro che sostengono, nello stesso senso, che il diritto positivo è qualcosa la cui esistenza e - per alcuni - il cui contenuto semantico (nei limiti in cui sia possibile separarlo da compromissioni valutative) possa essere individuato (dalla teoria del diritto, appunto), indipendentemente da - e prioritariamente rispetto a - tutte le attività che mirano alla sua interpretazione, alla sua applicazione, al suo uso sociale, e che poi intervengono successivamente rispetto al prioritario accertamento "neutrale" della sua esistenza. Proprio questo mi sembra lo schema di riferimento per tutte le teorie che, come l'ELP, finiscono poi per aderire ad un modo radicalmente dicotomico di configurare i vari possibili discorsi sul e nel diritto, secondo il quale vi sarebbe, da una parte, la categoria della descrizione a carattere oggettivo (l'unica, in fondo, di cui si possa dare una caratterizzazione adeguata "in positivo"), dall'altra quella, di carattere radicalmente soggettivo, di cui farebbero parte le modalità della "valutazione", della "presa di posizione", della "creazione", e così via [52] .
Ho detto or ora che questo è lo schema concettuale all'interno del quale si colloca l'ELP, così come, del resto, un buon numero di teorie giuridiche contemporanee che si muovono nel solco del giuspositivismo analitico. Ma il fatto è che, purtroppo, anche l'ILP, perlomeno per larga parte, sembra condividere queste premesse di fondo, o quantomeno non riesce a distanziarsene in modo sufficientemente chiaro. Tutto quello che si può dire in proposito è che, nella migliore delle ipotesi, la questione rimane sostanzialmente aperta. Molto spesso si assiste, all'interno dello schieramento che aderisce all'ILP, ad un ondeggiamento fra convinzioni di tipo descrittivistico e realistico e altri tipi di convinzioni, che poggiano su schemi di riferimento alternativi, molto più solidi e convincenti[53] . E' mio fermo convincimento, tuttavia, che se l'ILP non si disporrà ad abbandonare coerentemente e risolutamente le premesse descrittivistiche e realistiche, allora non soltanto esso non sarà in grado di differenziarsi in modo chiaro e preciso dall'ELP, ma, cosa ancora più grave, non riuscirà a render conto in modo adeguato e fecondo della questione del rapporto fra diritto e morale (per come si configura negli stati di diritto costituzionali); né, se è per questo, riuscirà ad elaborare, su di un piano più generale, un programma di ricerca complessivo sul diritto in grado di fornire risposte interessanti e convincenti su tutte le principali questioni teoriche oggi sul tappeto (ad esempio, la questione della "normatività" del diritto, quella della sua "autorità", e così via).
Se ora dovessi svolgere il compito esporre, in termini propositivi, le coordinate epistemologiche e teoriche attorno alla quali dovrebbe operarsi la "correzione di rotta" da me auspicata del programma di ricerca dell'ILP, il discorso si farebbe troppo lungo e complicato per gli scopi del presente lavoro. Qui non posso fare altro che rinviare a un mio recente volume già più volte citato[54] , nel quale, appunto, cerco di tracciare alcuni lineamenti (di carattere epistemologico, semantico e teorico) per un programma di ricerca sul diritto - da me etichettato come - costruttivistico. Detto in estrema sintesi, aderire ad una prospettiva siffatta vuol dire, a livello semantico, criticare alla radice l'idea che il linguaggio in cui si esprime la conoscenza (in tutti i suoi possibili ambiti) sia riconducibile al modello della "descrizione pura", quasi che fosse possibile formulare asserti che "rispecchino fedelmente singole porzioni di realtà", e dunque si limitino a registrare oggettivamante dei dati la cui composizione e struttura non è in alcun modo toccata dalla descrizione stessa .
A questo tipo di impostazione semantica il costruttivismo obietta che il linguaggio conoscitivo ha sempre una funzione costitutiva nei confronti del campo di esperienza cui si rivolge, nel senso che è proprio tale linguaggio a strutturare e a organizzare il campo in questione ricostruendolo e ritagliandolo attorno alle coordinate -linguistiche- dettate dalle categorie e dai criteri di classificazione incorporati nello schema concettuale da cui ci si muove.
Le coordinate semantiche di cui sopra dipendono, a loro volta, da assunzioni epistemologiche ancora più fondamentali, in accordo con le quali viene considerata come radicalmente incoerente la nozione di una realtà in sé (così come è elaborata dal realismo metafisico), nel senso di una realtà che si offre ai nostri tentativi di conoscerla come di già dotata, indipendentemente dal nostro intervento conoscitivo, di una sua autonoma strutturazione ed etichettatura in oggetti, generi, classi, e così via. Dal punto di vista conoscitivo, al contrario, l'unica realtà con cui abbiamo a che fare è una realtà per noi, nel senso di una realtà che costituisce l'esito, sempre rivedibile, dei nostri tentativi di ricostruirla a partire dagli schemi concettuali (potenzialmente pluralistici) di volta in volta disponibili all'interno di un determinato contesto culturale.
Possiamo adesso provare a mostrare, in estrema sintesi, che tipo di implicazioni potrebbero discendere per l'ILP, se esso per davvero decidesse di muoversi risolutamente all'interno delle coordinate costruttivistiche sopra delineate. Non posso naturalmente scendere nei dettagli (lo farò maggiormente nel prossimo paragrafo, su due punti specifici); mi limito a mettere in evidenza una implicazione di carattere generale, che riguarda l'idea stessa di positività del diritto, in quanto fenomeno normativo. Ebbene, da questo punto di vista, un primo elemento che emerge, in negativo, dalla applicazione delle premesse costruttivistiche è il rifiuto radicale dell'approccio oggettualistico, comunque esso sia configurato. Quello che invece si sostiene, in alternativa, è che la "positività" del diritto non è una proprietà che il diritto acquista "tutta in una volta" (questo vorrebbe dire considerare il diritto come un dato), tramite un singolo comportamento o una singola decisione; l'acquisizione di tale proprietà è, piuttosto, un risultato che viene prodotto dall'intervento di una pratica complessa (qui la positività non è un dato, ma un processo), all'interno della quale tale diritto (nelle sue istanze specifiche, naturalmente) viene collettivamente usato, in modi e forme diverse, dai vari tipi di partecipanti alla comunità giuridica di riferimento. E' chiaro, naturalmente, che il momento della produzione iniziale del diritto è importante, ma non è il solo momento decisivo: parafrasando Hart, e non prendendo in considerazione, per brevità, le complicazioni connesse con la natura sistemica del diritto (che pone il problema delle condizioni di esistenza della norma di riconoscimento e del suo contenuto), si può dire che il diritto positivo esiste, da un punto di vista normativo, soltanto nei limiti in cui esso viene accettato e usato collettivamente dai membri di una comunità di riferimento[55] . In poche parole, l'esistenza del diritto positivo è, secondo questo approccio, il frutto collettivo di una pratica sociale, e non già di singole decisioni puntiformi poste in essere da alcuni soggetti particolari[56] .
Quanto detto è forzatamente molto schematico e generico. Ma non si poteva fare altrimenti, in questa sede. Mi pare, però, che adesso sia possibile, alla fine del paragrafo, chiarire un po' meglio che carattere abbiano le risorse esplicative ulteriori che un approccio costruttivistico può fornire all'ILP in merito alla trattazione della questione del rapporto fra diritto e morale, e soprattutto in relazione all'estrema fluidità da cui sono oggi caratterizzati tali rapporti. Ebbene, una versione costruttivistica dell'ILP mette radicalmente in questione, innanzitutto, l'idea che una soluzione adeguata possa essere ritrovata nella netta demarcazione fra teoria del diritto e teoria dell'applicazione del diritto. Dal punto di vista di un approccio che guarda al diritto come una pratica sociale, infatti, la teoria dell'interpretazione-applicazione del diritto non può essere scissa dalla teoria del diritto, per la semplice ragione che i processi interpretativi e applicativi sono anch'essi elementi costitutivi per l'esistenza -normativa- del diritto positivo, e dunque rientrano anch'essi nell'orbita della teoria del diritto complessivamente considerata.
Lo stesso tipo di discorso può applicarsi alla questione dell'ingresso nel diritto di contenuti morali, sia che essi facciano parte di norme esplicite che di norme implicite. Tale ingresso, infatti, non avviene mai "tutto in una volta", attraverso singoli atti o decisioni, ma si realizza all'interno di un flusso continuo di complesse pratiche di carattere produttivo (la "creazione legislativa" di nuovo diritto, ad esempio), interpretativo e applicativo, che vanno progressivamente specificando questi contenuti morali, sotto l'incalzare dei casi concreti (ma si può anche trattare di "casi-tipo").Se le cose stanno così, allora bisogna riconoscere che l'onere principale della spiegazione dei modi in cui la morale penetra nel diritto, e delle forme diverse che tale processo può assumere (ad esempio, come esito di attività conoscitive, ovvero, ancora, di carattere creativo) ricade sulla teoria della interpretazione, una teoria, però, che operi a stretto contatto con la teoria del diritto strettamente intesa. In un contesto del genere, a ben guardare, è la teoria dell'interpretazione che deve aiutarci, fra le altre cose, a distinguere i casi in cui tali contenuti morali penetrano nel diritto come esito di processi conoscitivi, a carattere oggettivo (in un senso procedurale di oggettività da chiarire ulteriormente in seguito), all'interno dei quali giudici e studiosi si sforzano di render conto del - e di esplicitare e di integrare il -, il diritto preesistente sotto il profilo etico, senza per questo produrre delle fratture nella "catena del diritto" (parafrasando Dworkin); e i casi in cui, invece, i contenuti morali penetrano nel diritto come frutto di strategie creative forti poste in essere da giudici e studiosi, strategie che comportano l'intrusione, all'interno del diritto positivo, di elementi che non sono né coerenti né congruenti con il diritto preesistente (sempre nella sua migliore interpretazione, ovviamente).In quest'ultima serie di casi il giuspositivismo, anche nella versione rappresentata da un ILP rivisitato in chiave costruttivistica, avrebbe tutte le ragioni per tener fermo il suo postulato concettuale fondamentale relativo alla distinzione fra "diritto com'è" e "diritto come dovrebbe essere", e dunque per considerare quest'ultimo tipo di commistioni fra "diritto" e "morale" come frutto di una - questa sì perniciosa - confusione fra elementi che devono essere tenuti separati.

4) Inclusive legal positivism, oggettivismo etico e giudizi di valore.

In quest'ultimo paragrafo vorrei abbandonare il piano dell'analisi generale delle concezioni dell'ILP e delll'ELP, per scendere ad esaminare due questioni un po' più specifiche. Il mio obiettivo è quello di mostrare come la versione costruttivistica dell'ILP, sopra delineata, sia in grado di correggere due ulteriori fraintendimenti in cui le teorie giuspositivistiche contemporanee (ILP incluso) cadono o quantomeno corrono il rischio di cadere.
Le due questioni di cui tratterò saranno, nell'ordine, quella dell'oggettivismo etico, concezione che taluni suppongono sia implicata, in qualche senso, dalle tesi "incorporazionistiche", quelle che ammettono che la norma di riconoscimento possa far riferimento a contenuti morali; e quella del rapporto che taluni stabiliscono fra la collocazione esterna dello studioso, rispetto al sistema giuridico che è oggetto delle sue indagini, e il carattere avalutativo della sua attività "descrittiva", avente a che fare con le norme di tale sistema. La tesi generale che sosterrò, in entrambi i casi, è che i fraintendimenti in cui incorrono i giuspositivisti (che siano o meno aderenti all'ILP) dipendono per larga parte dalla condivisione di premesse realistiche (sul piano epistemologico) e descrittivistiche (sul piano semantico).
Veniamo alla prima questione, quella dell'oggettivismo etico. Come ho detto sopra, qui il problema è quello di vedere se l'ILP sia per davvero costretto ad accettare necessariamente, come fondamento epistemico delle tesi incorporazionistiche, l'ingombrante presenza di una concezione realistica dell'etica, che stabilisca una connessione concettuale fra realismo etico e oggettivismo etico. Su questo punto si è sviluppato, in tempi recenti, un acceso dibattito, che ha preso le mosse da alcune critiche mosse dal "primo Dworkin" al giuspositivismo hartiano e dalle susseguenti risposte fornite da Hart nel suo Postscript alla nuova edizione di "The Concept of Law ".
Prima, però, di ricordare, molto brevemente, i termini della discussione fra Dworkin e Hart, conviene fare qualche cenno sulla nozione di oggettività che è implicata dai discorsi sull'oggettivismo etico. Anche per questa nozione, è possibile, io credo, ritrovare un concetto comune a tutte le varie concezioni, una base minimale condivisa che tutte le varie interpretazioni del concetto presuppongono. Non ho riflettuto sufficientemente su questo punto, sul quale mi propongo di tornare in lavori futuri, ma ritengo comunque che una base concettuale comune per la nozione generale di oggettività possa essere individuata, perlomeno in parte, in questo tipo di assunzione: <<sono qualificabili come "oggettivi" singoli giudizi e affermazioni o interi discorsi i cui contenuti hanno un significato indipendente dalle credenze e/o atteggiamenti "soggettivi" di chi di volta in volta li pone in essere, nel senso che tali contenuti sono dotati, in modi da specificare ulteriormente (da parte delle varie concezioni), di garanzie e di vincoli che non sono fissati da quella stessa fonte che li ha prodotti>>. Da questo concetto generale di oggettività si può poi ricavare una sorta di concetto "regionale" di oggettività giuridica. E' sufficiente, a questo scopo, specificare che i soggetti di cui si parla sono soggetti, a vario titolo, "giuridici", e che i giudizi e i discorsi hanno a che fare con il "diritto positivo".
A partire, poi, da questo concetto, si possono avere, sia sul piano generale che su quello del diritto, diverse concezioni dell'oggettività, che si distinguono le une dalle altre per le differenti interpretazioni che offrono della natura e dei contenuti delle garanzie e dei vincoli di cui sopra. In merito a tali vincoli e garanzie, infine, va messo in evidenza un profilo che riguarda tutti i concetti a carattere regionale: in tutti questi casi, cioè, una parte dei vincoli e delle garanzie (ad esempio, l'esigenza che i discorsi oggettivi siano "intersoggettivamente controllabili") ha un carattere generale, di tipo trans-disciplinare ; l'altra parte ha, invece, un carattere specifico, legato alle caratteristiche del contesto di riferimento (ad esempio, nell'ambito dei discorsi giuridici, vincoli di questo tipo sono quelli che riguardano l'attività interpretativa, quali quelli disposti da eventuali norme a ciò preposte, del tipo del nostro art. 12 delle "Disposizioni preliminari del codice civile").
Possiamo adesso tornare alla discussione fra Hart e Dworkin in tema di oggettivismo etico. Dworkin sostiene, in Taking Rights Seriously[57] , che il giuspositivismo hartiano, nei limiti in cui riconosce che i giudici possano, in taluni sistemi giuridici, utilizzare criteri etici nell'identificazione dell'esistenza e del contenuto di alcune norme giuridiche, sia necessariamente portato ad impegnarsi a favore della tesi, espressione del realismo morale, secondo cui è perfettamente appropriato parlare di fatti morali oggettivi che corrispondano alle affermazioni giudiziali in questione. In sostanza, a detta di Dworkin, se si ammette che certe proposizioni giuridiche che facciano riferimento a tests morali per accertare la validità di certe norme siano vere, proprio nello stesso modo in cui lo sono altre proposizioni sulla validità che adottano altri tipi di tests, allora si dovrà pure ammettere che esistano dei fatti oggettivi cui esse corrispondano; e, dal momento che il primo tipo di proposizioni ha un contenuto morale, allora vi devono essere per forza dei fatti morali oggettivi. Si potrebbe dire, parafrasando Dworkin nel mio lessico, che quest'ultimo attribuisce al giuspositivismo hartiano una concezione di oggettività etica (e forse anche di oggettività in generale) per la quale le garanzie delle affermazioni morali sono costituite dalla loro corrispondenza con fatti oggettivi, esterni a quelle pratiche discorsive. Il giuspositivismo, insomma, sarebbe necessariamente costretto ad impegnarsi per un realismo morale di tipo metafisico : cosa che peraltro, aggiunge Dworkin, è ben difficilmente sostenibile per tale concezione. Insomma, conclude Dworkin, delle due l'una: o il giuspositivismo decide di impegnarsi a favore di una concezione ontologica molto discutibile, che risulterebbe incompatibile con le concezioni filosofiche ed epistemologiche altrimenti presupposte da quasi tutti i suoi sostenitori (per i quali, tra le altre cose, lo "status" oggettivo dei discorsi sulla validità giuridica dovrebbe essere indipendente dall'adesione ad una teoria epistemologica così controversa); ovvero, nei limiti in cui il giuspositivismo, invece, qualifichi tali tesi epistemologiche come false o "senza senso", esso sarebbe allora costretto ad ammettere che buona parte delle affermazioni giuridiche contenenti il riferimento a contenuti morali, ad esempio all'interno del sistema giuridico americano, sarebbero di fatto confinate nella sfera della "discrezionalità giudiziale", poiché non si potrebbe presumere il loro riferimento ad un "diritto preesistente"[58] .
Purtroppo, la risposta fornita da Hart nel suo Postscript[59] rimane sostanzialmente prigioniera dell'impostazione data da Dworkin alla questione; e questo nonostante lo stesso Dworkin, come è noto, non abbia poi mantenuto tale argomento nei suoi scritti successivi, e proprio per il fatto di aver sostanzialmente cambiato idea sui temi dell'oggettivismo etico e della verità morale, abbandonando così una impostazione di tipo realistico[60] . Hart sembra ritenere, infatti, che una posizione oggettivistica, con riferimento ai discorsi sulla validità che adottano tests morali, abbia per davvero bisogno di fondarsi su di una qualche concezione, filosoficamente controversa, improntata al realismo etico. Stando così le cose, altrettanto controversa rimarrebbe, sempre secondo Hart, la tesi incorporazionistica, legata com'è alla plausibilità di quella posizione filosofica; la prima, cioè, potrebbe essere adottata soltanto se si adottasse anche la seconda. Tutto ciò implica che, nel caso che quest'ultima posizione non fosse sostenibile, allora si dovrebbe riconoscere che il rinvio a contenuti morali non ha alcuna garanzia di oggettività; non rimarrebbe che sostenere allora, in alternativa, che in questi casi i giudici fanno appello alla loro "migliore comprensione della moralità", e dunque svolgono una attività interpretativa dai contenuti squisitamente discrezionali.
Sono convinto, così come tanti altri che sono intervenuti nel dibattito[61] , che questa vera e propria "capitolazione" di Hart nei confronti di Dworkin sia del tutto inopportuna; ma la ragione principale di questo giudizio non consiste certamente nel fatto che lo stesso Dworkin abbia poi cambiato idea, facendo mancare il terreno del confronto; e nemmeno, quantomeno come ragione sufficiente, nel fatto che il giuspositivismo non sia comunque necessariamente vincolato ad adottare una prospettiva epistemologica del genere; la ragione principale consiste, piuttosto, nel fatto che Hart cade nell'errore di accettare l'impostazione generale che Dworkin dà alla discussione, finendo per condividere, come del resto molti altri giuspositivisti contemporanei, una concezione del tutto inadeguata dell'oggettività (sia in generale, che in relazione al diritto), concezione che ne interpreta il concetto in chiave di realismo metafisico. E' proprio la presenza di questo collegamento fra oggettivismo e realismo che fa scattare in Hart quella che potremmo chiamare la "sindrome dell'oggettivista deluso"[62] , secondo la quale il rifugio nella tesi della discrezionalità giudiziale (che Hart considera come un esito possibile della sua posizione) rappresenta una diretta conseguenza dell'accettazione, quantomeno implicita, di una concezione troppo forte di oggettività, concezione che egli ritiene non possa avere attuazione pratica, perlomeno nel contesto di discorso giuridico.
Qui, come si può vedere, sono pienamente in funzione, anche se soltanto per via implicita, le premesse epistemologiche realistiche e le premesse semantiche descrittivistiche che, come ho detto sopra, hanno contribuito a determinare quel modo, radicalmente dicotomico, di caratterizzare i discorsi sul e nel diritto che è proprio di buona parte delle teorie giuridiche contemporanee, e che produce delle distinzioni -a mio avviso del tutto inadeguate- del tipo "descrizione/valutazione", "presa d'atto/presa di posizione", "scoperta/creazione", e così via. Ebbene, anche l'alternativa fra discorsi - sulla validità delle norme, sui loro contenuti, e così via - di tipo oggettivo e discorsi di tipo soggettivo, e dunque a carattere discrezionale, è frutto dello stesso tipo di logica dicotomica. Sembra, insomma, che l'unica via d'uscita nei confronti di un insostenibile oggettivismo sia quella di virare verso esiti di tipo relativistico, quali sono quelli che attribuiscono ai giudici, in questo ambito di attività, poteri decisionali di tipo discrezionale.
Bisogna perciò reagire alla capitolazione di Hart nei confronti del suo avversario; a questo scopo, però, non può bastare, come ho già notato sopra, limitarsi a sostenere, come molti fanno [63] , che non è per nulla necessario per il giuspositivismo adottare una qualche forma di realismo morale a sostegno dell'oggettività dei discorsi giuridici. In realtà, mettere in evidenza che oggi sono disponibili concezioni diverse dell'oggettività, più deboli e comunque alternative rispetto a quelle che si fondano sul realismo morale, è una condizione necessaria, ma non sufficiente per una trattazione adeguata della questione.
Il rischio di una impostazione minimalista di questo tipo è, infatti, che le varie concezioni vengano messe sostanzialmente sullo stesso piano; e non è affatto così che stanno le cose. Quello che bisogna fare, al contrario, è mettere in maggiore evidenza il fatto che l'errore fondamentale delle posizioni qui criticate (sia in ambito epistemologico generale, che in sede di teoria del diritto) risiede nel contrapporre, in via mutuamente esclusiva, un oggettivismo forte ad un relativismo altrettanto forte, e ritenere quindi che l'unica alternativa al primo sia il secondo. Questo tipo di contrapposizione può essere riproposta in sede di teoria dell'interpretazione giuridica, che è, a mio avviso, la sotto-disciplina della teoria del diritto che deve sopportare, quantomeno per larga parte, il peso di trovare una configurazione accettabile dell'oggettività in sede di discorsi giuridici. Ebbene, in questo ambito la contrapposizione in questione si traduce in quella fra discorsi interpretativi oggettivi, che hanno la funzione di "scoprire" contenuti semantici preesistenti, e discorsi interpretativi soggettivi, che hanno la funzione di "creare" nuovi contenuti, e che dunque lasciano libero sfogo alla discrezionalità giudiziale; e quanto or ora detto si applica pienamente, come è del tutto ovvio, ai casi in cui i contenuti in questione sono contenuti a carattere morale.
Stando così le cose, mi pare che un compito importante dell'ILP, nella sua versione costruttivistica, debba essere quello di proporre una concezione alternativa, in via generale e in relazione al diritto, a questa concezione forte dell'oggettività, con la sua dipendenza dal realismo e la sua contrapposizione dicotomica al relativismo; ma, naturalmente, non è un compito che può essere svolto in questa sede. Mi pare però importante rilevare che oggi, nel panorama delle concezioni epistemologiche contemporanee[64] , vi sono molte concezioni che cercano opportunamente di trovare una via di mezzo fra oggettivismo forte e relativismo forte. Anche in ambito giuridico, del resto, si cominciano a sviluppare tentativi di questo tipo[65] .
All'interno di queste posizioni, mi pare che una impostazione coerentemente costruttivistica debba sforzarsi di individuare il fulcro di questa "via di mezzo" nel passaggio da una oggettività metafisica ad una oggettività epistemica. Quest'ultima concezione dell'oggettività interpreta l'elemento concettuale dei vincoli e delle garanzie poste ai discorsi giuridici (e ai discorsi a carattere conoscitivo in generale) in termini procedurali, e non più sostanziali. Quello che voglio dire è che, in questo tipo di posizione, l'oggettività dei discorsi giuridici non è il risultato positivo eventuale del confronto fra questi discorsi e certi tipi di fatti, ma semmai il risultato dell'aver adottato tecniche e procedure (argomentative, ad esempio) corrette e appropriate.
Non sono in condizioni di andare oltre nell'approfondire questo punto. Nello spazio di questo saggio, non ho potuto fare di più che tracciare alcune direttrici di marcia per il percorso da compiere. Voglio soltanto ribadire un'indicazione metodologica, diretta ad un ILP, rivisitato in chiave costruttivistica, che voglia indagare sul tema dell'oggettività giuridica. Si tratta di una indicazione che viene fuori da quanto ho detto sopra sulla concezione - epistemica e procedurale - di oggettività da sviluppare, e sul tipo di approccio al diritto - il diritto come pratica sociale - da privilegiare. Ebbene, all'interno del tipo di quadro concettuale sopra delineato, è sulla teoria dell'interpretazione giuridica che grava l'onere di chiarire attraverso quali modalità di tipo "oggettivo" sia possibile, per operatori e studiosi del diritto, introdurre (attraverso le varie attività connesse all'individuazione della validità e del significato delle norme giuridiche) contenuti morali all'interno di un sistema giuridico, senza per questo disporsi ad un'improponibile confronto con un "mondo di fatti morali"; e senza, per converso, prodursi nella creazione ex novo di principi etico-giuridici, frutto della singola "coscienza morale" degli operatori e degli studiosi stessi. Ma deve trattarsi, si badi bene, di una teoria della interpretazione vista come una articolazione interna della teoria del diritto, e non già di una disciplina totalmente sganciata dalla seconda. Sono peraltro convinto che la teoria contemporanea dell'interpretazione giuridica, di matrice giuspositivistica, possegga, a determinate condizioni, le risorse per svolgere questo gravoso compito. Io stesso, per mia parte, ho cercato di dare qualche contributo in questo senso[66] .
La seconda questione che rimane da trattare, anche se in estrema sintesi, in questo paragrafo conclusivo è quella del rapporto fra la collocazione esterna dello studioso del diritto, nei confronti del sistema normativo che è oggetto della sua indagine, e il carattere avalutativo della sua attività "descrittiva"[67] di norme. La parte assolutamente maggioritaria degli studiosi giuspositivisti, inclusi quelli che si riconoscono nell'ILP, dà assolutamente per scontato, appunto, che la collocazione appropriata dello studioso del diritto giuspositivista sia "all'esterno" del sistema normativo. Per molti di questi autori si tratta, comunque, di un punto di vista esterno moderato[68] , in quanto lo studioso che lo adotta si preoccupa, pur "stando all'esterno", di tener conto degli atteggiamenti e delle credenze delle persone che fanno parte della comunità giuridica il cui sistema è oggetto di studio. Più in particolare, lo studioso attribuisce atteggiamenti e credenze normative alle persone il cui comportamento indica che accettano certi standards di condotta come vincolanti; e rende anche conto dei modi in cui le persone guardano alle loro proprie azioni e alle istituzioni, incorporando questi elementi nella spiegazione complessiva del diritto fornita. Senza dubbio egli stesso, in quanto studioso, non si sente impegnato nei confronti del sistema giuridico che cerca di spiegare, ma mette comunque in luce gli impegni dei funzionari e dei cittadini[69] .
Orbene, la gran parte di coloro che ritengono che la collocazione appropriata dello studioso del diritto sia "all'esterno" (non importa, in questo momento, se in chiave "moderata" o meno) del sistema normativo è altrettanto convinta che a tale collocazione debba corrispondere necessariamente un atteggiamento avalutativo nei confronti del suo oggetto di studio [70] . Il massimo che alcuni di questi studiosi sono disposti a concedere è il riconoscimento della distinzione fra valori metateorici (ad esempio, "importanza", "semplicità", "potenziale esplicativo"), che presiedono alla scelta di una teoria scientifica e che come tali sarebbero ammissibili in sede di "descrizione giuridica", e valori squisitamente etici, che invece non sarebbero ammessi [71] ; e questa è anche l'opinione sostenuta in merito da molti autori che si riconoscono nell'ILP[72] .
Ora, a parte il fatto che tale distinzione è molto dubbia, per ragioni squisitamente epistemologiche [73] , essa non serve comunque a spiegare con chiarezza cosa accade quando i contenuti valutativi entrano a far parte dell'oggetto della descrizione, cosa che puntualmente si verifica nel caso del "lavoro su norme" svolto dagli studiosi del diritto.
Ebbene, anche su questo punto sono opportuni alcuni chiarimenti, forzatamente molto brevi. Anche qui, per una discussione più approfondita, sono costretto a rinviare ad un mio lavoro precedente[74] .Il punto fondamentale che voglio mettere in evidenza è che la base epistemologica sulla quale viene costruita quella sorta di identificazione fra "discorsi descrittivi" e "discorsi avalutativi" è costituita dalla concezione semantica -appunto- descrittivistica del linguaggio informativo, con i suoi presupposti epistemologici di tipo realistico. Solo se si fa affidamento su questa base si può poi sostenere che i discorsi informativi (come sarebbe molto meglio dire, invece che descrittivi) implicano necessariamente il rifiuto di esprimere giudizi di valore, di qualunque tipo essi siano. Se, però, si abbandona questa base di riferimento in favore di una concezione semantico-epistemologica costruttivistica, allora la connessione fra "informativo" e "avalutativo" viene svelata per quello che realmente è: non più come un collegamento concettuale necessario, ma come una possibile concezione del linguaggio informativo - peraltro radicalmente inadeguata - a cui se ne possono opporre delle altre, di cui alcune - come quella costruttivistica - possono invece benissimo ammettere la presenza di compromissioni valutative all'interno di tale tipo di linguaggio.
In questo senso, il collegamento necessario fra "informativo" e "valutativo" è frutto di un vero e proprio fraintendimento. Se così stanno le cose, allora nell'esame di questo tema si viene a produrre uno slittamento interessante: la questione, infatti, non è più quella di riconoscere l'esistenza di una relazione concettuale, ma, al contrario, quella di vedere quale concezione del linguaggio informativo può essere più interessante e feconda, in linea generale e con specifico riferimento al diritto. Ma questo vuol dire, in relazione alla specifica discussione concernente il rapporto fra discorso informativo dello studioso del diritto e carattere avalutativo della sua attività, che non si può più presumere l'esistenza di una relazione concettuale necessaria fra i due elementi; la tesi della avalutatività delle descrizioni degli studiosi deve essere semmai difesa su altre basi, e deve comunque confrontarsi con altre tesi.
A tale proposito, la mia opinione personale, che non posso però discutere in questa sede, è che l'ILP, rivisitato su basi costruttivistiche, dovrebbe abbandonare la concezione descrittivistica del linguaggio giuridico informativo, e riconoscere la presenza, a certe condizioni da specificare, di giudizi di valore all'interno di tale tipo di discorsi. In questo senso, lo studioso del diritto di ispirazione giuspositivistica potrebbe legittimamente stare "all'esterno del sistema giuridico" (adottando il punto di vista esterno moderato), e tuttavia trovarsi nelle condizioni di esprimere, a certe condizioni, dei giudizi di valore (in funzione conoscitiva). Più in particolare, la mia posizione si articola in due tesi fondamentali, che mi limito brevemente a menzionare, scusandomi in partenza per l'eccessiva schematicità di quanto dirò.
La prima tesi è quella secondo cui bisogna riconoscere, a livello epistemologico generale, che il principio di avalutatività, per varie e importanti ragioni, non può più essere un principio-guida della conoscenza. Questa tesi, tuttavia, ha una valenza tutto sommato minimale, perché equivale alla rimozione di un divieto (quello, per l'appunto, che vietava l'intromissione di giudizi di valore all'interno della conoscenza).
La seconda tesi riguarda, invece, l'ambito dei discorsi informativi sul diritto, o per meglio dire di tutti quei discorsi informativi che hanno a che fare con contenuti valutativi e giudizi di valore all'interno del proprio campo di indagine. Orbene, la mia convinzione è che in questi casi (e dunque la tesi non riguarda tutti i discorsi informativi sul diritto, ma soltanto quelli che hanno a che fare con contenuti valutativi) la presenza dei giudizi di valore è necessariamente richiesta al fine di una comprensione adeguata di quei contenuti, con tutto quello che tale comprensione comporta. Qui, insomma, l'esigenza, per lo studioso, di interpretare quei contenuti valutativi, di elaborarne una determinata concezione (fra le varie disponibili) di raccordarli con altri contenuti valutativi presenti nel sistema, di stabilire priorità e gerarchie fra di essi (una volta interpretati), eccetera, richiede l'intervento di apprezzamenti valutativi ulteriori (di secondo ordine).
In conclusione, quelli che ho discusso in questo ultimo paragrafo sono soltanto due possibili esempi del tipo di percorso che l'ILP dovrebbe intraprendere se volesse affrancarsi sul serio dall'ipoteca rappresentata dalla condivisione di premesse realistiche e descrittivistiche, condivisione che, peraltro, finisce con il rendere la sua proposta teorica non solo meno convincente, ma anche troppo simile a quella del suo rivale più agguerrito, l'ELP. Le tesi che ho cercato di sviluppare in questo saggio non sono certo sufficienti a chiudere, in un senso o nell'altro, la competizione fra questi due programmi di ricerca; dovrebbero comunque servire, così almeno mi auguro, a suggerire delle ragioni per insistere nel perseguire il programma dell'ILP.