Ragionevolezza e divisione dei poteri
Roberto Bin
1. Premessa Il mio contributo è dedicato al rapporto tra il giudizio di ragionevolezza e la divisione dei poteri. Il problema a cui vorrei offrire una risposta è se i giudizi basati sulla ragionevolezza, affermatisi in modo così intenso ed evidente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, siano effettivamente un fenomeno inedito e deviante, al punto da modificarli, dai tradizionali tracciati che separano il ruolo del legislatore democraticamente eletto dal ruolo dei giudici - includendo tra questi anche la Corte costituzionale che, benché sia innegabilmente un giudice assai particolare, condivide con gli altri la netta e necessaria estraneità dal circuito della legittimazione democratica. Per rispondere a questo quesito, prenderò le mosse da una definizione di 'giudizio di ragionevolezza' convenzionale e minima. Convenzionale perché mi occuperò dei tre contesti nel cui àmbito è generalmente riconosciuto che il giudizio di ragionevolezza operi in via principale, se non esclusiva: il giudizio di eguaglianza, il bilanciamento degli interessi e il giudizio di congruità tra la legge e il suo fine. Minima perché, almeno per il momento, non cercherò di modificare l'area così delimitata né nel senso di ampliarla ad ulteriori manifestazioni della ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale (per esempio, nei conflitti di attribuzione, nel giudizio sulla c.d. "leale cooperazione", nei giudizi di ammissibilità dei referendum ecc.) o fuori di essa, né per ridurla, ragionando sulla consistenza della tripartizione descritta per cercare schemi unitari più profondi. 2. Il giudizio di ragionevolezza è un fenomeno nuovo? A me sembra che la ragionevolezza non sia affatto un fenomeno nuovo. Al contrario, i tre contesti appena elencati sono omologhi ad altrettanti luoghi tipici della tradizionale interpretazione giuridica. A) Che il giudizio di eguaglianza riproduca gli schemi logici del ragionamento per analogia è cosa ben nota: "il fondamento dell'analogia nel diritto è il nucleo razionale dell'idea della giustizia distributiva, cioè l'eguaglianza, che non soccorre solo nell'applicazione delle regole…ma anche nella loro produzione"(1) . La struttura trilaterale del giudizio di eguaglianza, da tempo proposta da Livio Paladin(2) , ricalca perfettamente la struttura del giudizio di analogia se solo la depuriamo da un elemento: il richiamo, come vertice dell'ideale triangolo, del principio costituzionale di eguaglianza stesso. Questo aspetto della ricostruzione di Paladin - per altro nulla affatto essenziale - mi ha sempre lasciato perplesso(3) : infatti, se si esamina il "triangolo" attraverso cui si sviluppa il giudizio d'eguaglianza, il suo "vertice" non risulta occupato dal principio costituzionale d'eguaglianza. Esso non entra nello schema di ragionamento, non ne costituisce una componente, ma, semmai, ne è il fondamento, la giustificazione esterna, il pretesto formale della proposizione del giudizio alla Corte costituzionale, in quanto rappresenta il parametro costituzionale invocato da chi investe la Corte del caso. Ma il giudizio della Corte, per ciò che attiene alla sua struttura, si sviluppa a prescindere da ogni richiamo all'art. 3 Cost. Pone in raffronto - come Paladin spiega con grande chiarezza - una norma tratta dalle leggi ordinarie con un'altra norma ordinaria assunta a paragone, e si interroga sulla ragionevolezza della differenziazione o dell'equiparazione di trattamento. Per rispondere a questo interrogativo la Corte deve assumere un punto prospettico da cui valutare la rilevanza delle somiglianze e delle differenze tra le fattispecie poste a confronto, e questo punto prospettico è dato dalla ratio legis: il legislatore ha disposto A (fattispecie presa come tertium comparationis) perché perseguiva X (ratio legis); dal punto di vista X risulta ragionevole discriminare (o assimilare il trattamento di) B (fattispecie impugnata)? Se si accerta che A e B sono accomunabili dall'eadem ratio, il triangolo si chiude, con la conseguenza che saranno dichiarate illegittime le eventuali differenziazioni poste dal legislatore, mentre "triangolo" non vi sarà neppure se la diversità di rationes delle due norme comparate impedisce di unire al "vertice" i due lati dello schema (con conseguente illegittimità delle eventuali parificazioni di trattamento che invece il legislatore abbia disposto). Depurato dalla presenza - inutile, all'interno della struttura del ragionamento - del principio costituzionale di eguaglianza, lo schema triangolare si rivela perfettamente idoneo a rappresentare anche il ben più tradizionale ragionamento per analogia(4) . Nel triangolo dell'analogia(5) vi è lo stesso movimento ascendente dalla norma particolare al "suo" principio, alla sua ratio, e la ridiscesa dal vertice ad un altro punto, un'altra fattispecie giudicata, dall'angolo visuale della ratio, ragionevolmente simile: "è necessario che la somiglianza tra il caso previsto dalla disposizione di legge e quello non previsto consista nel fatto che entrambi i casi abbiano come termine comune di riferimento la 'ragion sufficiente' della disposizione stessa: ubi eadem ratio, ibi eadem juris dispositio"(6) . I ragionamenti analogici, come il giudizio d'eguaglianza, sono convincenti se gli aspetti che rendono i due termini di raffronto simili sono rilevanti: e vi è rilevanza se è sostenibile una relazione causale tra il motivo di somiglianza e le situazioni poste a confronto. Sono simili perché derivano dalla stessa causa, dalla stessa 'ragion sufficiente'(7) : "gli argomenti analogici possono essere probabili quando vanno dalla causa all'effetto o dall'effetto alla causa"(8) . B) Si potrebbe supporre che il bilanciamento degli interessi non possa rivendicare radici altrettanto profonde nei modi tradizionali del ragionamento giuridico, ma non è così. Non intendo appellarmi a fenomeni che pur risalgono nel tempo come il sindacato del giudice amministrativo sulla ponderazione degli interessi, i modi in cui il giudice civile può essere chiamato a verificare l'equilibrio delle prestazioni a cui si sono obbligate le parti contrattuali o le varie clausole equitative o indeterminate di cui è disseminata la legislazione, per ognuna delle quali può sorgere un problema di bilanciamento tra contrapposti interessi. Neppure mi riferisco alla indispensabile ponderazione degli interessi in gioco che è insita nella disciplina di pressoché ogni istituto giuridico(9) , e che l'interprete deve ricostruire proprio per ricomporre la ratio delle disposizioni con cui ha a che fare, fino al punto di "scoprire" la regola del caso nel bilanciamento degli interessi (come suggerito dalla Interessenjurisprudenz). D'altra parte, la stessa "dottrina" del bilanciamento che la Corte costituzionale ha sviluppato in epoca relativamente recente nasce proprio dalla precedente esperienza di "interpretazione" delle disposizioni costituzionali e da una teoria interpretativa di tipo sistematico, per cui, come la Corte ha infinite volte ripetuto, ogni diritto, anche il più alto, nasce limitato e va inteso e apprezzato nel fascio complessivo degli altri diritti o dei diritti altrui(10) . Vorrei puntare più in alto, sino a sostenere che nella tradizionale teoria dell'interpretazione della legge è costantemente presente l'esigenza di un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti. Prendiamo il classico problema delle lacune del diritto (che ha poi una così stretta connessione, logica e storica, con quello dell'analogia): chi ne nega l'esistenza (e perciò riduce lo stesso àmbito di applicazione dell'analogia), finisce necessariamente con l'impostare il problema secondo un'ottica di bilanciamento degli interessi. Le esemplari pagine che Donato Donati(11) ha dedicato alla contestazione dell'esistenza delle lacune muovono, come è noto, dall'accreditamento di una norma generale esclusiva che limita la "forza di espansione logica" delle disposizioni legislative, contrapponendole un principio i "esclusione logica"(12) . Sul piano della teoria dell'interpretazione giuridica, questa impostazione porta a fissare un criterio generale che ripartisce in due l'arco delle possibilità dell'interprete di fronte ad una supposta "lacuna": o impiegare l'argumentum a simili, e procedere quindi per analogia (come richiesto da una supposta norma generale inclusiva )(13), o impiegare l'argumentum a contrario, e applicare quindi la (supposta) norma generale esclusiva(14) . Nella prima ipotesi, si è già detto del ruolo che vi svolge la ragionevolezza; nella seconda, quello cui è chiamato l'interprete è un giudizio di bilanciamento degli interessi. Sono in conflitto gli interessi che hanno ispirato la norma che regola e limita la sfera di libertà, e il principio di libertà implicito nella stessa norma generale esclusiva, per cui tutto ciò che non è vietato è permesso. Certo Donati non avrebbe accettato di chiamare le cose così: ma quando l'interprete deve delimitare l'àmbito di applicazione di una norma limitatrice dei diritti, il suo primo compito è ricostruirne la ratio, e quindi gli interessi alla cui tutela la norma è predisposta, interessi antagonisti a quelli connessi alla libertà dell'individuo. L'opera di interpretazione della disposizione finisce perciò con implicare i test propri del giudizio di bilanciamento: la ricostruzione della ratio, un giudizio sulla congruenza tra la 'causa efficiente' della norma e lo strumento predisposto dal legislatore, una delimitazione dell'incisione della norma nella sfera degli interessi antagonisti, anche al fine di ridurre allo stretto necessario tale incisione e non sacrificare in toto la libertà individuale. Ho scelto la teoria di Donati proprio perché essa è miglia e miglia lontana da una teoria del bilanciamento degli interessi: se avessi scelto le teorie della Interessenjurisprudenz o della freie Rechtsfindung avrei avuto gioco troppo facile. Quanto intendevo dimostrare è soltanto come i segmenti e i percorsi di cui si compone il giudizio di bilanciamento non siano affatto estranei ad alcuni segmenti e percorsi del processo di interpretazione giuridica tradizionalmente intesa. Potrei aggiungere che ogni volta in cui l'interprete sia indotto a riflettere sulla ratio di una norma si ritrova a ragionare e argomentare degli interessi che attorno ad essa si addensano e della loro equilibrata composizione. Sotto questo profilo mi sembrerebbe probabile che argomenti tradizionali, come l'argomento a fortiori, l'argomento della sedes materiae o l'argomento della lex specialis, proprio perché basati sulla delimitazione della ratio legis e mirano perciò al fine di ridefinire l'assetto degli interessi coinvolti, riproducano tratti salienti del giudizio di bilanciamento. C) Quanto al giudizio sulla congruità del mezzo legislativo allo scopo, a me sembra che questa forma di "ragionevolezza", o forse più esattamente di razionalità, non abbia una sua specifica autonomia, ma sia parte inseparabile degli altri due. È sicuramente un segmento del giudizio di eguaglianza (la legge che è "irrazionale" non può giustificatamente discriminare le situazioni), ed è sicuramente un segmento del giudizio di bilanciamento (se la legge non riesce ad avvantaggiare l'interesse che vorrebbe promuovere, certo non può giustificarsi il fatto che danneggi l'interesse antagonista). Perciò spesso il giudizio della Corte costituzionale si ferma a questa prima tappa, senza bisogno di procedere oltre. Sul piano dell'interpretazione, la mancanza di una ratio, ossia di una 'causa efficiente' - la cui ricostruzione comporta comunque che si percorra sempre questa tappa del ragionamento - avrà probabilmente delle conseguenze svalutative che si riflettono sulla portata prescrittiva della norma in questione. Se la portata dell'applicazione di una disposizione è funzione della capacità di estensione della sua ratio e se la ratio viene ricostruita dall'interprete come 'causa efficiente' della disposizione, la conseguenza di un'accertata irrazionalità di scopo della disposizione non potrà che indurre l'interprete a svalutarne la capacità regolativa, e restringerne al massimo il campo di applicazione. Forse l'argomento ab absurdo può costituire lo strumento retorico per quest'interpretazione svalutativa(15) , così come costituisce - e lo vedremo in seguito - uno strumento acuminato per l'impugnazione delle leggi. 3. La "coerenza" dell'ordinamento Ho cercato sin qui di mostrare che quanto oggi noi indichiamo come un fenomeno nuovo e inquietante, cioè il giudizio di ragionevolezza, si compone invece di strutture argomentative ben note alla tradizione ermeneutica dei giuristi, ne utilizzi segmenti di ragionamento ben collaudati e li componga secondo schemi certificati. È però vero che l'accettabilità di questi schemi ha rappresentato già in passato materia di conflitto nella comunità degli interpreti e tra i teorici dell'interpretazione: così è stato per l'analogia, sospesa tra gli argomenti "interpretativi" e quelli "produttivi"; così è stato per la stessa teoria delle "lacune" nell'ordinamento, contro cui scagliava i suoi strali critici Donati; per non dire della considerazione degli "interessi" nella giurisprudenza e degli stessi argomenti che sulla valutazione degli interessi si basano, come l'argomento teleologico, che è concorrente dell'argomento analogico(16) . Lo stesso argomento a contrario, che spinge l'interprete a considerare le conseguenze di una decisione giudiziaria e la sua possibile ingiustizia(17) , conduce a operazioni che possono sembrare eversive rispetto alle attività strettamente interpretative. Quale giustificazione può essere invocata a giustificazione di queste argomentazioni, così strettamente connesse, direi quasi propedeutiche, al giudizio di ragionevolezza? Il "presupposto di una intrinseca coerenza del sistema"(18) e le idee "mitologiche" della completezza e della razionalità del legislatore. In altra sede(19) ho sottolineato come la "completezza", la "coerenza", la "razionalità" del legislatore non siano certo criteri che attengono alla legislazione o al legislatore, ma, semmai, alle convenzioni che vigono nella comunità degli interpreti, e che vi sono accreditate perché ritenute premesse utili, anzi indispensabili, al lavoro che la comunità deve svolgere(20) . Non sono presupposti dell' ordinamento "positivo", quanto, piuttosto, solidi paradigmi della scienza giuridica: rappresentano "valori" condivisi dalla comunità degli interpreti, elementi basilari nella costituzione della loro matrice disciplinare. Insomma, sono princìpi regolatori supremi che guidano l'opera dell'interprete(21) ; non però quella del legislatore: I cittadini e i legislatori… non hanno bisogno di giustificare in termini di ragione pubblica il modo in cui votano, o di dare coerenza alle loro motivazioni e di inserirle, su tutto il ventaglio delle loro decisioni, in una visione costituzionale compatta. Ma il ruolo del giudice consiste proprio nel fare questo(22) La differenza è fondamentale, perché "completa", "coerente", "razionale" e "univoca" potranno, forse dovranno essere attributi predicabili della norma, in quanto risultato del lavoro dell'interprete così come l'interprete lo intende, non già della disposizione, che è atto di potere(23) . Quando si afferma che l'ordinamento giuridico ha la pretesa della completezza e della coerenza, si dice cosa che, se riferita alla legislazione - specie quella italiana - non può che suscitare ilarità. Ma l'interprete non può operare senza l'aspettativa(24) di trovare una risposta coerente, ragionevole, "accettabile"(25) ad ogni problema che gli venga posto. Si tratta di una vera e propria regola deontologica per il soggetto dell'interpretazione-applicazione del diritto, che da un materiale incoerente e forse contraddittorio deve trarre una soluzione univoca del problema, del "caso". È chiaro che è l'interprete ad "anticipare" (in senso ermeneutico) le qualità di completezza e di coerenza del testo su cui lavora. La personificazione del legislatore, e l'attribuzione alla sua opera di presunte caratteristiche che appartengono invece all'opera dell'interprete, sono dunque mosse compiute da quest'ultimo per cercare di deresponsabilizzare e desoggettivizzare alcuni elementi del proprio lavoro, quelli meno facilmente "accettabili". 4. Dall'interpretazione al giudizio di legittimità Cosa muta quando, nell'uso dello strumentario argomentativo della ragionevolezza, si passa dall'attività di interpretazione delle leggi, di cui ho parlato sinora, al giudizio di legittimità in relazione ad esse? A me sembra che la risposta possa essere questa: muta solo l'intensità, l'efficacia di alcuni strumenti, non la loro struttura. Di fronte al "suo" caso, il giudice deve individuare la regola giuridica da applicare. Siccome il materiale legislativo, le disposizioni, possono essere incoerenti e incomplete, impiega una serie di strumenti, che la tradizione ha elaborato e gli ha trasmesso, per adempiere al compito di ridurre le antinomie e integrare le fattispecie. Da un lato, dunque, i classici criteri cronologico, gerarchico, della specialità ecc.; dall'altro gli strumenti dell'interpretazione sistematica, dell'estensione analogica, dell'interpretazione teleologica e il vasto strumentario argomentativi ereditato. Ma vi sono casi che non può risolvere da solo. In paesi come il nostro, in cui vale il principio della soggezione del giudice alla legge, il tenore letterale della disposizione può essere spesso un ostacolo non superabile con i soli mezzi dell'interpretazione: per esempio perché l'analogia è nel caso vietata, pur essendo evidente l'identitas rationis; oppure perché la disposizione non offre margini di modificazione del campo di applicazione, pur essendo evidente l'assurdità dell'applicazione della fattispecie al caso in questione; od ancora perché il ragionamento sistematico da solo non consente di superare l'antinomia, ecc. In questi casi "il comune interprete non è autorizzato ad integrare la legge, specie in mancanza di ogni appiglio normativo o letterale"(26) : prevarrebbe perciò il broccardo dura lex sed lex, se non esistesse lo strumento del ricorso alla Corte costituzionale. Così come è positivamente costruito, il giudizio incidentale può essere legittimamente visto come strumento che serve essenzialmente ad agevolare l'opera del giudice e solo indirettamente alla protezione dei diritti. È lo strumento attraverso il quale il giudice può completare la sua opera e meglio soddisfare le regole di deontologia professionale, che gli prescrivono di ridurre l'ordinamento ad un sistema coerente, completo, univoco e razionale: ed è l'unico strumento che ha a disposizione per risolvere le antinomie tra le leggi e la costituzione rigida applicando il criterio gerarchico. Perciò è psicologicamente comprensibile che il giudice veda nella costituzione la sede in cui i presupposti della coerenza, completezza ecc., che egli è solito ipostatizzare come qualità del legislatore, diventano prescrizioni dirette al legislatore stesso, e nella Corte costituzionale il loro custode. È una visione del tutto priva di fondamento? Direi di no. Che l'art. 3.1, così come storicamente la Corte costituzionale lo ha interpretato, costituisca la base normativa del ragionamento per analogia, già è stato argomentato nel § 2. Ciò giustifica, mi pare, la comune opinione per cui coerenza e completezza dell'ordinamento siano princìpi "costituzionalizzati", almeno nel senso che il legislatore non può irragionevolmente differenziare il trattamento di fattispecie simili (e viceversa) e non può irragionevolmente limitare la "naturale" espansione delle proprie disposizioni a tutte le situazioni sussumibili nella ratio di esse. Massime che trascrivono questi principi si trovano a dozzine nella giurisprudenza costituzionale. Più difficile può sembrare rintracciare un fondamento costituzionale del bilanciamento degli interessi: ma è una difficoltà solo apparente, come cercherò di mostrare. La chiave me la offre ancora una volta Donati. Nel suo modello, ogni norma che restringe le libertà - ossia, come Donati ritiene, ogni norma tout court - trova una spinta antagonista nel generale principio di libertà (tutto ciò che non è espressamente proibito è permesso). Potremmo dire che tale affermazione prenda le mosse dall'ipotesi di un legislatore liberale e ne ipostatizzi quindi tale qualità, affiancandola a quelle delle coerenza, completezza ecc. Ma nel contesto della costituzione rigida italiana il discorso può arricchirsi di molti elementi ulteriori. A me sembra infatti che il fondamento costituzionale del bilanciamento degli interessi possa essere individuato nel tratto della costituzione più svalutato dalla letteratura degli anni '50 e '60, cioè in quelle "illusorie formole di compromesso fra i partiti"(27) a cui si ridurrebbero le disposizioni costituzionali di principio. È perfettamente vero, infatti, che la costituzione italiana si è formata attraverso la giustapposizione di principi incompatibili, la sovrapposizione di affermazioni e contemporanee smentite, di finti compromessi tra posizioni inconciliabili. Ma questo non è affatto un difetto, bensì una caratteristica strutturale che accomuna la nostra alle altre costituzioni del dopoguerra (basti pensare a quanto sia stato criticato in Germania, da Forsthoff in poi, il preteso ossimoro sozialer Rechtsstaat): una caratteristica del tutto congrua rispetto alla funzione che la costituzione e le sue affermazioni di principio devono assolvere. E su questa funzione che occorre riflettere. 5. Pluralismo e bilanciamento Le costituzioni moderne non sono riducibili ad un unico ed omogeneo sistema di principi a causa della loro natura intimamente pluralista, di corpi normativi compositi e mai ridotti ad unità. Nascono dall'esigenza di forze diverse e contrapposte di mettere i loro rispettivi valori o interessi al riparo dalle future vicende politiche, rendendo quei valori e quegli interessi "rigidi", nel senso di non intaccabili da decisioni delle maggioranze future. Perché dovrebbe trattarsi di una tavola di valori coerente e omogenea? Se una tavola consimile fosse esistita, non avrebbe avuto neppure senso ricorrere alla costituzione rigida, come non ebbe senso per tutto l'800 quando, anzi, la "rigidità" era considerata un tratto superato e recessivo delle costituzioni "moderne"(28) . Ogni tentativo di postulare anche del legislatore costituzionale le prerogative della coerenza è assoluto indebito. Vale proprio il contrario: ogni principio viene predicato assieme al suo limite, ogni regola è posta con la sua eccezione, ogni potere è attribuito assieme al suo contropotere(29) . Sbaglia chi ritiene che ciò rappresenti una debolezza, un difetto dei testi costituzionali, così come sbaglia chi insegue la disperata reductio ad unum della pluralità conflittuale dei princìpi, cercando il "vero" significato della costituzione o impossibili gerarchie culminanti in un valore o in un principio dominante(30) . Attendersi coerenza dalle disposizioni di una costituzione rigida come la nostra è altrettanto assurdo, oltre che ingeneroso, che attendersi "coerenza" tra i generi alimentari conservati in un frigorifero: l'analogia funziona perché entrambi i "contenitori" sono accomunati dall'eadem ratio, conservare alcuni "beni" il più a lungo possibile; in entrambi il valore che prevale è il pluralismo (che forse nei frigoriferi si chiama 'versatilità'), non la coerenza. Ha ragione perciò Zagrebelsky(31) quando riconosce valore assoluto al solo meta-principio del mantenimento del pluralismo dei valori. Penso che queste affermazioni possano incontrare ormai vasto consenso; forse non altrettanto però le conseguenze che ora ne trarrò. La prima conseguenza è che pressoché ogni conflitto giuridico si trova in un immaginario spazio giuridico nel quale si sovrappongono le aeree di protezione di due o più diritti o interessi costituzionali. In altre parole, il carattere pluralistico (e conflittuale) della costituzione riduce enormemente l'area del "giuridicamente indifferente", proprio come l'accreditamento di una norma generale esclusiva riduceva enormemente, per Donati, lo spazio per le lacune del diritto. Spazio che la costituzione pluralista riduce ancora di più, perché la concorrenza tra interessi costituzionalmente rilevanti non si riduce a due soli valori, ma coinvolge conflitti di interessi talvolta tipizzati nelle stesse disposizioni costituzionali (la libertà di iniziativa economica e l'utilità sociale, per esempio), ma il più delle volte non previsti da esse. Qualsiasi conflitto di interessi che non abbia una persuasiva composizione nelle leggi ordinarie ha altissime probabilità di essere tematizzato come conflitto tra interessi costituzionalmente rilevanti ed essere perciò portato davanti alla Corte costituzionale. La seconda conseguenza è che la Corte, anche se lo volesse, non potrebbe operare un self-restraint efficace, perché comunque sarebbe impegnata a verificare la ragionevolezza del bilanciamento tracciato dal legislatore. Il self-restraint apparente si riduce ai casi in cui le è possibile concludere che il bilanciamento legislativo non è irragionevole, ossia che il punto di equilibrio fissato dal legislatore si trova in una zona di tollerabile equidistanza tra le aeree di protezione degli interessi coinvolti. Anche qui, come nei giudizi di eguaglianza e nei conflitti tra poteri dello Stato, non è perciò lecito pensare di difendere il "tono costituzionale" delle questioni sottoposte alla Corte(32) , consentendo l'accesso alla Corte solo a quelle questioni che tirano in ballo diritti o principi "fondamentali". Che le scelte del legislatore non siano "sbilanciate" o che nella questione prospettata alla Corte non siano incisi diritti o principi costituzionali è la conseguenza di un giudizio di bilanciamento regolarmente svolto, non una considerazione preliminare capace di impedire l'accesso a questioni prive di "tono": è il risultato negativo di un giudizio di bilanciamento, non la sua negazione né la premessa impeditiva degli sviluppi ulteriori. La terza conseguenza è che il bilanciamento degli interessi non è una "dottrina" inventata dalla Corte, della cui legittimità occorra discutere, ma è una necessità, un obbligo implicitamente assegnato dalla costituzione alla Corte stessa. Il pluralismo, le cui contraddizioni la costituzione non ha risolto in via generale - e non avrebbe potuto farlo senza negare il pluralismo stesso - deve essere affrontato e ricomposto caso per caso dalla Corte costituzionale valutando la "ragionevolezza" delle scelte compiute dal legislatore ordinario. Come afferma Alexy, ogni discorso sui diritti fondamentali è un discorso sul bilanciamento, e i princìpi che esprimono i diritti impongono il bilanciamento, sono cioè Abwägungsgebote. Allo stesso risultato mi sembra si possa arrivare per altra via, ragionando non sulla struttura normativa dei princìpi, ma sulla struttura pluralistica della costituzione. La quarta conseguenza è che anche la teoria del "contenuto minimo" o "essenziale" dei diritti (Wesensgehalt), sistematicamente applicata dalla Corte costituzionale, si può ancorare allo stesso tessuto pluralistico della costituzione. Il "contenuto minimo" è esattamente il nucleo incomprimibile che una delle componenti del "costituente" storico (del quale non si possono certo predicare le presupposte qualità di coerenza, univocità ecc., data la programmatica e coessenziale caratteristica di pluralismo che lo hanno connotato proprio come "legislatore storico") è riuscita a "irrigidire" inserendo la menzione di un interesse (o valore) nella carta costituzione. 6. I giudici, il legislatore, la Corte Vi è anche una quinta conseguenza, che merita ora d'essere approfondita perché riguarda proprio il tema della divisione dei poteri: che è irragionevole guardare alla ragionevolezza come ad un problema che si gioca (e riguarda il riparto di competenze) tra legislatore e Corte costituzionale. Perché la partita è a tre, visto che tutto inizia con un atto del giudice. È il giudice che investe la Corte di una questione che coinvolge la ragionevolezza, e lo fa come prosecuzione di ragionamenti che egli imposta e elabora. Troppo spesso questo elemento è trascurato e tutto viene ridotto ad una specie di auto-assunzione di compiti da parte della Corte, come se essa autonomamente si incaricasse di ispezionare le leggi e a valutarle per profili che rischiano di sconfinare nel merito politico. Questa è una visione riduttiva e sbagliata, che pone in termini fuorvianti anche la questione del riparto di funzioni e, quindi, della legittimazione. Non si può capire il senso di una sentenza della Corte senza esaminare l'atto che introduce il giudizio: la Corte risponde a domande, a "questioni" formulate, costruite e delimitate dal giudice. Si può capire il senso di una risposta senza conoscere la domanda? L'intero giudizio di costituzionalità è costruito su una concatenazione precisa e coerente di passaggi logici e di regole procedurali: per essere prospettata alla Corte, la questione deve essere rilevante, e quindi pregiudizialmente connessa al caso che il giudice ha di fronte; il giudice formula la questione rispettando la regola della pregiudizialità, cioè legando i termini generali e astratti del quesito che propone alla Corte alle caratteristiche particolari e concrete del caso che sta giudicando; la Corte, controllato il rispetto della regola della rilevanza, deve pronunciarsi nel rispetto del thema decidendum, ossia del quesito tracciato dall'ordinanza del giudice a quo; la Corte non può pronunciarsi extra petitum; tra gli elementi che devono delimitare il thema vi è anche, nei giudizi di eguaglianza, l'indicazione del tertium comparationis e del "profilo" della questione, ossia dell'elemento che il giudice ritiene costituire il fattore di somiglianza (o di differenziazione) delle due fattispecie, e che deve essere connesso alla ratio legis; quando il giudice chiede alla Corte una sentenza "additiva" (come quasi sempre avviene nei giudizi di eguaglianza o di bilanciamento degli interessi), deve obbligatoriamente indicare il "verso" dell'addizione, ossia la norma che vorrebbe aggiungere al o togliere dall'universo dei significati derivabili dalla disposizione in questione; la Corte risponde "a rime obbligate". Le maglie della catena sono strette, e stanno ad indicare, sul piano processuale, la stretta continuità che lega l'attività di interpretazione - applicazione del giudice all'attività della Corte costituzionale, su cui ho insistito nel § 4. Nell'adempimento dei suoi doveri di deontologia professionale, che lo chiamano ad estrarre dalla massa incoerente di "segni" posti dal legislatore, "significati" univoci e coerenti, ossia la regola, l'unica, da applicare al "suo" caso, il giudice s'imbatte in disposizioni non aggirabili o aggredibili con i soli strumenti dell'interpretazione. In altri tempi avrebbe forse forzato l'interpretazione sino al punto di sgretolare il "testo", di corrodere le leggi "dal di dentro come i tarli, e alla fine farle cadere in polvere, ridotte a formule vuote"(33) : oppure si sarebbe arreso alla "dura lex". Oggi può rivolgersi all'unico organo che è legittimato a rimuovere gli ostacoli che gli impediscono il cammino, la Corte costituzionale. Naturalmente lo può e lo deve fare quando rilevi un'antinomia tra la disposizione di legge e la costituzione, perché si trova di fronte al dilemma così ben espresso da Marshall nella sentenza da cui tutto ebbe inizio: So, if a law be in opposition to the Constitution, if both the law and the Constitution apply to a particular case, so that the Court must either decide that case conformably to the law, disregarding the Constitution, or conformably to the Constitution, disregarding the law, the Court must determine which of these conflicting rules governs the case. This is of the very essence of judicial duty.(34) Questa è appunto la "vera essenza" della funzione giurisdizionale. Ma se i diritti sono princìpi destinati ad essere bilanciati e se la classificazioni del legislatore talvolta non possono essere "arrotondate" con gli strumenti dell'analogia o dell'interpretazione e i "segni" impediscono la naturale espansione della ratio legis, al giudice - se non potesse rivolgere alla Corte costituzionale - sarebbe comunque preclusa l'opera sua: a soccombere sarebbe perciò la prevalenza gerarchica della costituzione sulla legislazione ordinaria, ossia i "valori", che il costituente volle porre a riparo dai colpi di maggioranza politica del momento, cederebbero di fronte alle decisioni assunte proprio dalla maggioranza politica del momento. Naturalmente si può discutere del significato delle questioni di cui la Corte viene investita, ossia, come già accennavo, del loro "tono costituzionale": davvero viene incisa la costituzione da una differenza di poche lire nel trattamento retributivo di due categorie o dal rifiuto dell'amministrazione di corrispondere una qualsiasi prestazione sociosanitaria? Un obbiezione di buon senso, ma il buon senso è spesso fuorviante. Alcune delle decisioni più importanti della Corte costituzionale, di maggior impatto per i diritti fondamentali e per la stessa vita politica italiana, sono sorte da questioni "bagatellari" o quasi. Il principio atavico dell'ignorantia legis non excusat è stato demolito da una sentenza provocata da un pretore che si trovava a dover infliggere una pena di poche migliaia di lire ad un coltivatore che aveva livellato alcuni tratti del suo terreno senza pensare che pratiche agricole tradizionali potessero avere implicazioni urbanistiche; il monopolio pubblico della televisione è stato eroso da alcune decisioni causate dall'affacciarsi sul "mercato" di trasmettitori televisivi caserecci per lo più amatoriali; ecc. Perché la "questione" che la Corte decide dev'essere prospettata in termini astratti, come un conflitto tra una disposizione di legge e una disposizione della costituzione. E, d'altra parte, chi può rispondere al pensionato che rivendica le poche migliaia di lire che gli sono state sottratte da un provvedimento legislativo, che la "sua" questione è bagattellare? Può il giudice venire meno alla "very essence" della sua funzione solo perché si tratta di pochi soldi o di interessi troppo piccoli? 7. L'insostenibile irragionevolezza della legge Se, come mi sembra inevitabile, si risponde negativamente a queste domande, le conseguenze sono però non più arginabili. Perché pressoché ogni legge che incida, direttamente o meno, sulla sfera di interesse dei cittadini - il che equivale a dire semplicemente: ogni legge - è potenzialmente destinata ad essere giudicata in termini di ragionevolezza. Ogni legge, o perché classifica e distingue le situazioni o proprio perché non lo fa (tertium non datur), può essere denunciata per violazione del principio di eguaglianza. Ogni legge che il giudice si trovi ad applicare nel corso di un giudizio detta un determinato regolamento degli interessi concorrenti e, come tale, è in predicato di essere giudicata in termini di bilanciamento. Ogni legge, di conseguenza, passa per un preventivo giudizio di razionalità, in quanto, se non appare mezzo capace di raggiungere il suo scopo, non può legittimamente derogare all'eguaglianza formale né legittimamente comprimere gli interessi dei privati. Ciò può valere anche per la più sensata delle leggi. Infatti, anche la più sensata delle leggi soffre delle sue stesse caratteristiche strutturali, cioè della generalità e astrattezza delle sue norme. Le leggi, per loro natura, calibrano la loro disciplina sulla "normalità" dei casi, sull' id quod plerumque accidit, come la Corte assai spesso ricorda(35) : ad esse non può essere richiesto di inseguire la "non raggiungibile varietà del concreto"(36) . Si può allora provare a formulare un teorema: per quanto una legge possa essere sensata, equilibrata e pienamente giustificabile per la normalità dei casi, vi è almeno una circostanza in cui le sue classificazioni o il suo assetto degli interessi risulta irragionevole. Uno splendido esempio che serve a dimostrare il teorema è quello della legge che limitava il beneficio dell'astensione dal lavoro e i permessi per l'allattamento alla madre, negandoli al padre lavoratore. C'è qualcuno che possa dubitare della sensatezza di questa legge, che pure differenzia per ciò che la costituzione vieta come fattore di discriminazione? La procreazione segna come nessuna altra cosa la diversità "naturale" tra i sessi. Ma cosa accade se la madre è impedita a svolgere le "sue" normali funzioni? Numerose questioni vengono sollevate dai pretori, cui un padre si è rivolto per ottenere il riconoscimento degli stessi benefici, dovendo provvedere ai figli al posto della madre. Ma la legge è chiara, e non consente acrobazie interpretative: i benefici possono essere concessi solo alla madre. Tuttavia vi sono casi in cui questo rigido assetto normativo si rivela "paradossale". Prendiamo infatti l'ipotesi più drammatica, che la madre muoia di parto. Se noi ragionassimo solo in termini di tutela della salute della madre, allora l'esclusione del padre dalle provvidenze sarebbe giustificabile: in questa prospettiva le differenze naturali avrebbero piena rilevanza, non avendo la gravidanza, il parto e il puerperio conseguenze negative (se non indirette) sulla salute del padre. Ma i benefici non sono rivolti soltanto alla protezione della madre: c'è anche l'interesse del bambino, il diritto del neonato a essere inserito in una famiglia e lì trovare l'affetto e l'assistenza necessari. Questa è la ratio e da questo punto di vista l'esclusione del padre dai benefici crea una discriminazione intollerabile tra i neonati fortunati e quelli che nascono in una famiglia in cui la madre non c'è o non è in grado di assicurare la sua assistenza al figlio. La Corte per tanto ha riconosciuto che l'astensione obbligatoria dal lavoro e i permessi giornalieri per l'allattamento non sono posti a tutela solo della salute della madre(37) : se così fosse, come mai il legislatore avrebbe esteso questi benefici alla madre del bambino adottato? Se questa tutela è sganciata, anche solo in parte, dal fatto naturale della procreazione, essa deve essere estesa, in forza del principio di eguaglianza, al padre, almeno in altrettanta parte. Per questi motivi, la Corte dichiara illegittima la legge "nella parte in cui non prevede che il diritto all'astensione dal lavoro e il diritto al godimento dei riposi giornalieri, riconosciuti alla sola madre lavoratrice,... siano riconosciuti anche al padre lavoratore ove l'assistenza della madre al minore sia divenuta impossibile per decesso o grave infermità". Ma, una volta incrinato il rigido assetto degli interessi fissato dal legislatore, i casi "paradossali" che premono per una soluzione "ragionevole" si moltiplicano: il padre detenuto che chiede di godere dei permessi di cui godrebbe la madre se detenuta, sempre nelle stesse circostanze ammesse dalla Corte, cioè nel caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata a prestare assistenza al figlio(38) ; il padre adottivo, in alternativa alla madre (e non solo nel caso di impedimento di questa)(39) . Finché la "normalità dei casi" non appare definitivamente smarrita, e la Corte, spinta ad individuare la ratio legis nella sola tutela dell'interesse del minore, sollecitata dall'ennesima ordinanza decide che limitare l'estensione al padre dei benefici previsti per la madre solo nei casi che questa sia morta o gravemente inferma è illegittimo: almeno i riposi giornalieri sono sicuramente legati all'interesse della prole, non alla salute della madre, e spetta perciò ai genitori decidere se l'interesse dei figli è assicurato meglio dalla presenza della madre o da quella del padre(40) . Se il punto di prospettiva è dato dall'interesse del neonato, si può presumere che questo, nei primi mesi di vita, esiga in genere un rapporto fisico e psicologico con la madre: ma si tratta di una semplice presunzione, perché si deve lasciare ai genitori il compito di valutare ciò che più conviene al figlio. La legge viene perciò nuovamente dichiarata illegittima "nella parte in cui non estende, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice consenziente, il diritto ai riposi giornalieri ...". Ma la storia non è ancora finita. In seguito la Corte deve ancora ritornare sulla questione dell'equiparazione tra padre e madre. Questa volta però il problema ha una variante: il padre chiede di accedere ai benefici della maternità anche se la madre è lavoratrice autonoma, non dipendente. La Corte questa volta risponde di no(41) , perché la madre lavoratrice autonoma ha più possibilità di adattare i suoi orari alle esigenze dell'assistenza al figlio di quanto abbia una lavoratrice dipendente. Come dire: nella procreazione la differenza tra lavoro autonomo e lavoro dipendente è più rilevante della differenza tra uomo e donna! Questo esempio ci mostra due cose. Da un lato, che il ragionamento basato sull'eguaglianza e quello sul bilanciamento degli interessi sono assai spesso così strettamente intrecciati che è difficile ricostruirli separatamente. Dall'altro - è qui siamo al cuore del teorema - che una legge perfettamente giustificata per la gran normalità dei casi - per esempio perché la sua ratio rispecchia un equilibrio quasi "naturale" degli interessi - perde di senso man mano che le fattispecie concrete che il giudice si trova di fronte si allontanino dalla "normalità", cioè risultino paradossali. 'Paradosso' è ciò che "contrasta con la comune opinione, immaginazione, aspettativa o prassi, apparendo sorprendente, inatteso, audace ma anche assurdo e insensato"(42) ; tra i sinonimi di 'paradossale' c'è, appunto, 'irragionevole'(43) . Non è un difetto della legge, ma l'effetto imprevedibile dell'infinità variabilità del reale con cui il giudice ordinario ha quotidianamente a che fare. Se il suo compito si riducesse nel verificare l'astratta sussumibilità della fattispecie concreta nella fattispecie della dura lex, nessun problema di ragionevolezza si porrebbe. Ma siccome nessuno più sostiene, e da tanto tempo, che il giudice sia la bocca della legge, da altrettanto tempo egli si trova impegnato in giudizi di ragionevolezza, e lo fa - se è vera la premessa - nel consenso pressoché generale. Il che significa - passando dal piano soggettivo del giudice a quello oggettivo delle leggi a cui lui è legato - che la irragionevolezza è un carattere strutturale della stessa legge, carattere che si manifesta non appena il caso a cui essa deve essere applicato si trovi fuori dalla sua ratio: e che ciò possa accadere, appartiene alle poche certezze umane, è un corollario della imprevedibilità - per usare di nuovo le parole della Corte - della "non raggiungibile varietà del concreto", dell'umana impossibilità di "prevedere e disciplinare tutte le mutevoli situazioni di fatto"(44) . 8. La divisione dei poteri: di quali poteri si tratta? Sulla tensione tra la "lettera della legge", cioè come la fattispecie astratta è linguisticamente fraseggiata, e la sua ratio - che, come "causa" della legge, ne determina l'ambito di "applicazione giustificabile" - si è giocata l'antica partita del "controllo diffuso" di ragionevolezza; la codificazione dell'argomento apagogico, che di paradossi (e quindi di casi irragionevoli) si nutre, ne è una riprova. Né il legislatore ha mai negato ai giudici un margine di adattamento della legge ai casi concreti: basti considerare il rinvio all'apprezzamento discrezionale del giudice penale in sede di commisurazione della pena, tutte le clausole valutative, le formule equitative, ecc, di cui è intessuto l'ordinamento giuridico. Quando il legislatore non glielo ha attribuito espressamente, il giudice se l'è riconosciuto attraverso gli strumenti dell'interpretazione cui ho accennato nel § 2. Oggi può anche rivolgersi alla Corte, ma per chiederle che cosa? Il più delle volte il giudice chiede di essere liberato dal vincolo della soggezione alla legge, denunciando in essa lo scostamento tra il tenore letterale e la ratio: quello che chiede è che gli venga riconosciuto un margine di apprezzamento non previsto dal legislatore. È un modello assai ricorrente nella giurisprudenza costituzionale e di grande significato sotto il profilo sistemico, modello che altrove ho chiamato di "delega di bilanciamento"(45) . Sollecitata dal giudice, la Corte dichiara illegittima la disposizione impugnata non perché sia viziata in sé, ma perché la sua "durezza" si manifesta di fronte al paradosso: di conseguenza libera il soggetto dell'applicazione del diritto (il giudice, ma talvolta anche la pubblica amministrazione) dallo stretto rispetto della lettera della legge, dilatando simmetricamente il potere di apprezzamento che a tale soggetto spetta. Ma, per non lasciare del tutto libero l'apprezzamento del giudice (o della pubblica amministrazione), la Corte introduce di solito una norma nuova, che si aggiunge alla regola espressa dalla disposizione come un lemma ulteriore: norma che ricava da quanto il giudice è tenuto - come si è visto - ad indicargli, cioè la regola assunta come tertium comparationis o il "verso" della proposta "addizione" (ossia la tipizzazione a fattispecie astratta del caso concreto e paradossale che il giudice ha di fronte). Se noi guardiamo al problema della ragionevolezza dal punto prospettico che ho delineato, ci accorgiamo che questo tipo di giudizio sviluppato dalla Corte tocca sì la divisione dei poteri, ma che i poteri che ne vengono interessati non sono tanto quelli rispettivi del legislatore e della Corte stessa, bensì quelli del legislatore e del giudice ordinario. La Corte assume una posizione esterna, quasi di arbitro: simile cioè a quella che assume nei conflitti di attribuzione(46) . Non siamo quindi di fronte ad un soggetto "nuovo", la Corte costituzionale, che minaccia di usurpare quote del potere legislativo, novello areopago che, privo di legittimazione democratica, pretende di ingerirsi nelle scelte politiche del legislatore, nel "merito" delle leggi (violando lo specifico ed ovvio divieto dell'art. 28 della legge 87/1953). Tutt'altro: siamo proprio di fronte alla più tradizionale spaccatura tettonica lungo cui si svolge la teoria della separazione dei poteri, ossia davanti alla contrapposizione tra legis-latio e legis-executio, tra posizione delle norme generali e astratte e applicazione concreta di esse. È la spaccatura tettonica lungo cui si organizza larga parte del nostro sistema costituzionale: la contrapposizione tra disposizione e norma, tra volontà politica e ragione tecnica, tra legittimazione attraverso la rappresentanza e legittimazione attraverso l'argomentazione, tra politica che pone il diritto e diritto che limita la politica. È la spaccatura tettonica che ha periodicamente registrato, nella storia giuridica occidentale, i tentativi degli interpreti di liberarsi dal gioco dei legislatori e i tentativi dei legislatori di legare le mani degli interpreti. È la spaccatura tettonica per cui è stata sollevata la stragrande parte dei veri e propri conflitti di attribuzione di cui la Corte costituzionale è stata sinora investita(47) . Dei conflitti che sorgono lungo questa linea, la Corte costituzionale è chiamata ad essere l'arbitro. La sua stessa composizione, che certo non le consentirebbe di essere un valido "competitore" del parlamento sul piano della normazione, è perfettamente rispondente allo schema arbitrale: un terzo dei componenti nominato da ciascuna delle due parti, l'altro terzo - che giustamente viene per ultimo nella successione temporale iniziale - è nominato da chi per definizione è super partes. Quale mirabile coerenza! Una coerenza - si sa(48) - nata non dalla preveggenza del futuro modo d'essere della Corte, ma dalla piena consapevolezza del sottile crinale su cui essa si sarebbe collocata, sospesa tra chi la voleva tecnica e tanto conservatrice quanto lo erano i magistrati e chi la voleva politica e legata da un forte rapporto con il parlamento democraticamente eletto. Due concezioni diverse del ruolo della Corte costituzionale, anch'esse disposte sui versanti opposti della spaccatura che separa il diritto dalla politica. 9. Il problema della legittimazione Il problema della legittimazione c'è, serio e complesso. Di solito si percepisce però il solo isolato aspetto della legittimazione della Corte costituzionale come organo a se stante, un'ottica che rischia di essere povera e inconcludente. Se si prova ad impiegare ancora il modello che ho prospettato in queste pagine, il problema della legittimazione della Corte appare assimilabile ai termini in cui si considera la legittimazione di qualsiasi arbitro. Un arbitro è "legittimato" nella misura in cui goda la fiducia delle parti, cioè si mostri equidistante ed equilibrato: sono le parti a sceglierlo e, almeno in parte, a comporlo. Ma oltre al dato, per così dire, "strutturale", c'è l'aspetto "funzionale", cioè l'esigenza che l'arbitro non tenga un atteggiamento sistematicamente ostile alle istanze di una delle parti. Ciò vale anche per la Corte. Un'icastica frase di Rawls(49) riassume bene i termini del problema: "la costituzione non è quello che di essa dice la Corte; è ciò che le consentono di dire su essa coloro che agiscono costituzionalmente negli altri rami del governo". L'equidistanza non significa che la Corte debba cercare la mediazione tra le parti, il compromesso: non è questa la funzione dell'arbitro e del suo lodo. Che la Corte svolga, nell'àmbito del giudizio di ragionevolezza una funzione di tipo arbitrale, non significa affatto che essa debba procedere per linee mediane o giudicare secondo equità. L'equidistanza e l'equilibrio vanno salvaguardati nel complesso della funzione che essa svolge. Esprimono la necessità di mantenere aperti i canali di comunicazione con la parte che chiede l'arbitrato, i giudici, e con la parte avversa, il legislatore: nel credito che essa mantiene sui due fronti sta il fondamento della sua legittimazione. Qui ritorna sulla scena il giudizio di ragionevolezza: può la Corte erigere un muro alla richiesta sistematica da parte dei giudici di rimuovere gli ostacoli, posti dal legislatore, allo svolgimento della funzione che a loro spetta? Quale ricaduta avrebbe questo atteggiamento in termini di credibilità? A me pare chiaro che se i giudici percepissero che la Corte non è un interlocutore disponibile a cui potersi rivolgere per una soluzione dei problemi che ostacolano il loro lavoro, e se smettessero perciò di investire la Corte delle questioni di legittimità costituzionale che sorgono "nel corso di un giudizio", la Corte avrebbe sì, definitivamente, perso la sua legittimazione. Così come rischia di perderla quando cerca di forzare la mano dei giudici ed imporre a loro la propria interpretazione delle leggi. Altrettanto può accadere sull'altro versante: se la Corte non arginasse in qualche modo le richieste dei giudici e fosse un censore sistematico delle scelte del legislatore, non ne rispettasse la "discrezionalità" - cioè non si limitasse ad attivarsi solo nei casi in cui la discrezionalità "trasmodi in palese irragionevolezza" - la reazione del legislatore non si farebbe attendere. Reazioni magari scomposte, come quelle originate dalla famosa sentenza sull'art. 513.2 cod. proc. pen., a seguito della quale diverse sono state le proposte di revisione costituzionale presentate in parlamento ed aventi come oggetto specifico la "riduzione" dei poteri della Corte. Sono reazioni scomposte perché rivelano un'allarmante incapacità di cogliere il problema: quando non "trasmodano" nel puro folklore, come la proposta di un parlamentare della Lega di prevedere che le sentenze della Corte possano essere impugnate di fronte alla Corte europea dei diritti dell'uomo (sic!)(50) , esse si limitano a proporre che la Corte possa pronunciare esclusivamente l'illegittimità di una disposizione di legge senza aggiungere norme nuove(51). A me queste proposte sembrano un controsenso, perché, quand'anche riuscissero a produrre l'effetto sperato, l'effetto si rivelerebbe in contrasto con l'obiettivo: perché le sentenze interpretative di accoglimento sono uno strumento che la Corte ha inventato proprio nell'intento di ridurre l'impatto demolitorio delle proprie decisioni, nel tentativo perciò di salvaguardare l'integrità dell'ordinamento legislativo, di limitare l'incisione sulle scelte del legislatore. Agendo proprio da arbitro, ha cioè cercato di soddisfare al massimo le esigenze prospettate dal giudice con la minor incisione sulle scelte del legislatore. Ma queste proposte hanno un significato illocutorio, sono un avviso di contestazione rivolto all'arbitro. Purtroppo uno dei pochi segnali comunicativi da parte del parlamento e della "politica", la cui "sordità" nei confronti degli appelli lanciati dalla Corte è ormai proverbiale: al punto, per esempio, di aver "dimenticato" la sent. 420/1994 con cui la Corte aveva dichiarato illegittima - una volta tanto con pronuncia "secca" e non interpretativa - la norma della "legge Mammì" che consente la concentrazione di tre reti televisive nelle mani dello stesso concessionario privato. Che il parlamento ignori moniti e sentenze della Corte, anche in materie di tale importanza, è un fatto che indubbiamente incrina l'efficacia delle sentenze di questa. Come Kelsen ha insegnato, a questi livelli del sistema - di cui la Corte è in fondo l'organo di chiusura - efficacia e validità si confondono. Cosicché è ancora la legittimazione della Corte a risultare minacciata. Ma conviene alle parti delegittimare l'arbitro? Lo scarso amore che il legislatore - e più generalmente, la "politica" - manifesta per la Corte non è tanto una reazione al cattivo modo di interpretare la sua funzione di arbitro, quanto, mi pare, la conseguenza di una profonda incrinatura dei rapporti con la controparte, con i giudici. Per quanto l'arbitro sia capace di ben argomentare le proprie decisioni, queste non verranno accettate se tra le parti non c'è quel minimo di accordo pro bono pacis et pro amicitia conservanda che appartiene alle radici storiche dell'istituto(52) . Delegittimare l'arbitro, allora, non è necessariamente una sanzione per la cattiva conduzione del suo ufficio, quanto un riflesso del deterioramento dei rapporti tra le parti. Se così è, allora in questione non è tanto la legittimazione dell'arbitro, ma la legittimazione delle parti stesse. |